Ray Harryhausen, morto lo scorso 7 maggio alla veneranda età di 92 anni, fu senza dubbio uno dei più grandi maestri della stop motion, se non il più grande di sempre. Ciò che lo rendeva un artista così unico era la sua capacità di inserire modellini alti poche decine di centimetri e raffiguranti creature fantastiche o mostruose all’interno di pellicole in live action, facendoli interagire perfettamente con gli attori in carne e ossa e con l’ambiente circostante, così che apparissero sullo schermo a grandezza umana o addirittura gigantesca. Prima di Carlo Rambaldi e dei suoi pupazzoni in animatronics, in un periodo in cui il computer non esisteva e il pubblico delle sale cinematografiche possedeva ancora la capacità di stupirsi, Harryhausen deteneva il monopolio della meraviglia su celluloide, donando a ogni pellicola cui abbia lavorato un fascino particolare, che scaturiva dalla sua maestria nel dare vita a esseri di fantasia che si muovevano con realismo sorprendente per l’epoca, pur nella loro esplicita natura di creature artificiali dalle sembianze spesso grottesche.

Nato a Los Angeles il 29 giugno 1920, Harryhausen rimase folgorato – lui, tredicenne dalla fervida fantasia – dal classico King Kong (1933) di Cooper e Schoedsack, uno dei primi esempi di utilizzo degli effetti speciali in stop motion all’interno del cinema in live action, in cui troneggiava lo scimmione animato da Willis O’Brien, e decise che quella doveva essere la sua strada. Presentando un progetto di cortometraggio, mai portato a termine, dal titolo di Evolution, che raffigurava la lotta fra due dinosauri – creature che si troverà spesso ad animare in seguito – fu assunto alla Paramount come assistente di George Pal, al tempo il più prestigioso artista del settore, per i suoi cortometraggi a tecnica mista Puppetoons.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, in cui aveva servito negli Special Services come tuttofare, venuto in possesso di grandi quantità di pellicola decise di utilizzarla per realizzare una serie di cortometraggi di argomento fiabesco dal titolo Mother Goose Stories, molto simili, nello stile e nelle tematiche, alle opere di Pal. Fu però lo stesso Willis O’Brien, che tanto lo aveva ispirato, ad assumerlo come primo assistente per dare vita a un altro gorilla, in questo caso più mansueto di King Kong: Mighty Joe Young, protagonista animalesco de Il re dell’Africa (1949) di Schoedsack. L’ottimo lavoro di squadra valse ai suoi autori un meritato Oscar per gli effetti speciali, e per il giovane astro nascente della stop motion fu la chiave per il successo.

Nel decennio successivo, pur portando avanti la serie di cortometraggi fiabeschi – rinominati Fairy Tales e poi raccolti nel 2005 in un pregevole DVD dal titolo Ray Harryhausen – The Early Years Collection – l’artista preferì specializzarsi negli effetti speciali di film in live action, in cui poteva dare sfogo al suo amore per la fantascienza realizzando, fra le altre cose, il lucertolone preistorico de Il risveglio del dinosauro (1953) di Eugene Lourié, la piovra gigante de Il mostro dei mari (1955) di Robert Gordon, gli UFO de La Terra contro i dischi volanti (1956) di Fred F. Sears e, soprattutto, il mostro extraterrestre Ymir, via via sempre più grosso nel corso della vicenda, di A 30 milioni di km dalla Terra (1957), che segnò l’incontro con il regista di origini austriache Nathan Juran.

Con quest’ultimo alla regia, Harryhausen sperimentò l’uso del colore e, l’anno successivo, diede vita al suo primo vero capolavoro, Il 7° viaggio di Sinbad (1958): di questo kolossal avventuroso restano memorabili, fra le tante sequenze, il duello fra il protagonista Kerwin Mathews e uno scheletro armato di spada e scudo e la lotta titanesca fra il ciclope e il drago. Un risultato straordinario che, seguito da due opere minori – I viaggi di Gulliver (1960) di Jack Sher e L’isola misteriosa (1961) di Cy Endfield – fu replicato alla grande cinque anni più tardi con Gli Argonauti (1963), un adattamento del celebre mito greco diretto da Don Chaffey. In questo caso, le sequenze entrate nella storia sono quelle della statua animata Talos, i cui movimenti appaiono volutamente impacciati, e la spettacolare battaglia fra i protagonisti e sette scheletri armati: per questa sola sequenza, che rappresenta un ampliamento di quella del singolo duello di Sinbad, furono necessari ben quattro mesi di riprese.

I tempi di realizzazione molto lunghi, dovuti anche alla sua scelta di lavorare sempre da solo, nonché l’evoluzione dei gusti del pubblico, che richiedeva opere più legate alla realtà e meno old-fashioned, spinsero Harryhausen a lasciare Hollywood e a diventare un libero professionista del settore. Così, dopo l’insuccesso del fantascientifico Base Luna chiama Terra (1964) di Juran, l’artista si cimentò in un paio di progetti legati al mondo dei dinosauri: Un milione di anni fa (1966) di Chaffey, più che altro un veicolo per lanciare la nuova stella Raquel Welch, e La vendetta di Gwangi (1969) di Jim O’Connolly. Quest’ultimo film, una specie di rilettura in chiave preistorica de Il re dell’Africa, con un tirannosauro al posto del gorilla, fu la realizzazione di un progetto personale che l’artista aveva a cuore da anni, ma richiamava una concezione di cinema molto artigianale e non in linea con le pretese di un pubblico sempre più smaliziato.

Negli anni Settanta, divenuto custode di un’arte che andava via via scomparendo, Harryhausen fu richiamato per realizzare gli effetti speciali di due film che, riprendendo il mitico personaggio di Sinbad, tentavano di riprodurre lo spirito ingenuo e il gusto per il meraviglioso del prototipo del 1958: Il viaggio fantastico di Sinbad (1974) di Gordon Hessler e Sinbad e l’Occhio della Tigre (1977) di Sam Wanamaker, malgrado la presenza di starlette sexy dell’epoca come Caroline Munro e Jane Seymour, non sono opere memorabili; i modellini di Harryhausen, però, specialmente la Dea Kalì del primo e il Minotauro del secondo, fanno ancora la loro ottima figura.

Il congedo dal cinema, per il grande artista californiano, avvenne con Scontro di Titani (1981) di Desmond Davis, un kolossal mitologico fuori tempo massimo nel quale la cosa migliore sono gli effetti speciali di Harryhausen, soprattutto la mostruosa Medusa e il gigantesco Kraken, che valsero al vecchio leone una candidatura ai Saturn Awards. Il confronto con l’orrido remake del 2010, gonfio di effetti digitali, lo vede vincitore su tutti i fronti.

Negli ultimi trent’anni, l’opera di Harryhausen ha raggiunto una dimensione mitica, divenendo presto oggetto di tributi da parte di cineasti prestigiosi come Sam Raimi, che nel suo L’armata delle tenebre (1993) inserì un’orda di scheletri che ricorda molto quella de Gli Argonauti, o Tim Burton, la cui filmografia è disseminata di riferimenti iconografici all’opera del maestro. Il nome di Harryhausen viene omaggiato in alcuni classici contemporanei del cinema d’animazione, da La sposa cadavere di Burton a Wallace e Gromit di Nick Park. Nonostante preferisse applicare le sue tecniche al cinema in live action rispetto a quelli che lui stesso, non senza un certo disprezzo, definiva “film di pupazzi”, Harryhausen non rimase tuttavia indifferente al recente rilancio della stop motion come tecnica cinematografica al di là delle mode e della tecnologia. Il suo più recente lavoro è stato, infatti, il cortometraggio d’animazione The Story of the Tortoise and the Hare (2002): iniziato nel 1952 e completato cinquant’anni dopo, utilizzando i modellini originali, è l’ultimo dei Fairy Tales ed è stato premiato con un Annie Award.

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