Sull’improbabile sfondo di un’Europa medievale irrimediabilmente fake, un elaborato pugnale in legno si trasforma in uno sgargiante pompon giallo e blu, catapultando gli (esigui) spettatori nei primissimi anni ’90 a colpi di lycra e funky music. Il grossolano ma efficace jump-cut iniziale mira a far convergere la solennità della tradizione e dell’atavica responsabilità di cui è investita la Cacciatrice, l’Eletta, e il mondo chiassoso, superficiale e carefree di cui la cheerleader è simbolo per eccellenza. In questa brevissima sequenza si condensa il concetto vincente partorito dalla mente geniale di Joss Whedon: ribaltare le convenzioni del genere horror, facendo sì che la frivola biondina di turno non fosse la vittima più ovvia, ma divenisse invece l’unica detentrice del potere di salvare la terra. “The cheerleader saves the world,” quindi, con buona pace della futura Claire Bennet.

Purtroppo l’insolito taglio in asse della sequenza iniziale, una sorta di citazione kubrickiana in chiave postmoderna e scanzonata, costituisce anche l’unico punto di forza del film. Il flop del 1992, infatti, è ben lungi dai fasti e dal successo di critica e di pubblico che avrebbe poi ottenuto la serie omonima, iniziata cinque anni più tardi e durata sette stagioni. La prima reazione dopo la visione di questa pellicola è quindi invariabilmente un sospiro di sollievo per il fatto che Joss Whedon non si sia arreso di fronte a una produzione che aveva completamente stravolto il suo script, ma abbia avuto invece la costanza di rielaborare il soggetto in formato televisivo e proporlo altrove, giungendo a creare la popolarissima serie che ancora oggi (a nove anni dalla trasmissione dell’episodio finale) vanta non soltanto schiere di appassionati da ogni parte del mondo, ma anche una propria disciplina accademica, i cosiddetti Buffy studies.

La seconda reazione consiste invece nel porsi un fondamentale interrogativo sulla natura umana: perché mai si dovrebbero sprecare 85 minuti del proprio prezioso tempo per un film carente sotto ogni aspetto? La risposta sta proprio nel tipo di approccio all’opera whedoniana, considerata appunto un corpus ricco, complesso e basato su una struttura a molteplici livelli interpretativi e sul citazionismo intra- e intertestuale. Studiosi di fandom e nuovi media come Henry Jenkins e Matt Hills ci hanno ormai abituati a considerare gli appassionati di serie televisive come “Aca/Fan”, in grado di miscelare la devozione cultuale e incondizionata del fan sfegatato con un rigore d’analisi che non ha nulla da invidiare a quello accademico. A questo connubio già di per sé degno di nota va aggiunta la perversione del collezionismo, il bisogno maniacale di raggiungere il massimo grado di completezza nell’ambito prescelto, anche a costo di sacrificare tempo, denaro e cine-neuroni.

Ecco quindi che ci si trova a (ri)guardare un filmetto incongruo che oscilla fra i generi del thriller-horror, della parodia e del teen movie senza trovare una collocazione che possa dirsi anche solo lontanamente soddisfacente. Per riassumere le vicende: la californianissima Buffy (Kristy Swanson), cheerleader modaiola fidanzata con il capitano della squadra di basket della scuola, riceve la visita di un misterioso individuo, Merrick (Donald Sutherland), che le rivela di essere il suo Osservatore, venuto ad addestrarla per la sua missione di Cacciatrice – sconfiggere i vampiri e le forze del male. Sorpresa sorpresa, proprio nella città di Buffy si sta espandendo la congrega del vampiro Lothos (Rutger Hauer), che con il suo braccio destro Amilyn (Paul Reubens) miete vittime in particolare fra gli studenti del liceo di Buffy. Quest’ultima, dopo qualche reticenza “iniziale” (leggi: un terzo del film), si convince dei propri poteri e comincia a sferrare pugni, calci e colpi di paletto a destra e a manca. Nel frattempo conosce Oliver Pike (Luke Perry), il cui migliore amico Benny (David Arquette) è appena stato vampirizzato. Inutile dirlo, Buffy si innamorerà di Pike (si noti il cognome), verrà estraniata dalle sue “frenemies” (friends/enemies), sconfiggerà prima Amilyn secondo la classica escalation verso il “big bad”, perderà Merrick in battaglia e ne vendicherà la morte nel confronto finale con Lothos, che ovviamente avrà luogo durante l’immancabile ballo di fine anno (sottotitolo: vi prego, ridatemi Sissy Spacek).

La trama, che pur funzionerà egregiamente una volta apportate le modifiche necessarie per la trasformazione in serie televisiva, in questo primo tentativo cinematografico risulta di una banalità sconcertante, proprio perché sradicata dalla prospettiva whedoniana e innestata invece in quello stesso substrato da teen horror che Whedon voleva scardinare dall’interno. Se qua e là si intravvede qualche guizzo del futuro decostruzionismo ironico dell’autore (ad esempio la pacchianissima mascotte della scuola, la testa di maiale raffigurata sul pavimento della palestra in cui si esibiscono le cheerleader), in generale la regista Fran Rubel Kuzui e i produttori non sembrano averne recepito l’intento.

Dalle scene iniziali fra cheerleading e centro commerciale Buffy e il suo manipolo di amichette (tra cui Hilary Swank) emergono come il classico gruppetto di adolescenti vanitose, sprezzanti e piene di sé, senza però riuscire ad avere lo spessore di personaggi come quello di Winona Ryder in Schegge di follia (e nemmeno quello di Lindsay Lohan in Mean Girls!). Certo, il fatto che Buffy Summers sia ormai indissolubilmente legata all’ineguagliabile Sarah Michelle Gellar (che la interpreta nella serie) farebbe sembrare inadatta qualsiasi altra attrice, ma Kristy Swanson non riesce comunque a trasmettere la grinta, il sarcasmo e la personalità sfaccettata del suo contraltare televisivo. La sua Buffy è viziata, poco brillante e nel complesso piuttosto sgradevole; l’assenza di amicizie significative (rappresentate da Willow e Xander nella serie TV) impedisce inoltre l’evoluzione del suo personaggio, che non riesce mai a staccarsi realmente dalla fatua staticità ossigenata tratteggiata già in apertura.

Neppure il resto del cast, che pur annovera interpreti di notevole calibro, riesce a infondere spessore alla pellicola: una Hilary Swank bidimensionale e un David Arquette poco più che macchietta passano inosservati sotto l’occhio già poco ricettivo di una regia approssimativa e priva di mordente, mentre Luke Perry, all’epoca già noto per il suo personaggio in Beverly Hills 90210, baratta il savoir faire di Dylan McKay con un ruolo da “pischello” di cui non riesce a cogliere pienamente l’essenza (l’idea di Whedon era di capovolgere lo stereotipo della “damsel in distress”, creando un personaggio maschile che venisse regolarmente salvato dall’eroina, ma l’interpretazione un po’ sfrontata e un po’ buonista del già trentenne Perry convince solo a metà e non regge il confronto con la futura complessità dei personaggi di Angel e Spike). Nemmeno i “grandi nomi” riescono a salvare la situazione: il Merrick di Donald Sutherland calca troppo la mano sul pathos e sul mistero, palesandosi all’improvviso, lanciando sguardi carichi di tensione e ordinando a Buffy di seguirlo al cimitero, ottenendo un effetto inquietante da stalker ben lontano dal perfetto aplomb in tweed del Giles di Anthony Stewart Head; il Lothos di Rutger Hauer si crede invece replicante di Bela Lugosi, ma non riesce a trasmettere quella dose di ironia che avrebbe compensato l’effetto kitsch.

Il film si salva quindi soltanto in un’ottica filologica, come prequel non tanto a livello di trama (la serie ne rielaborerà parzialmente le vicende), quanto a livello di sviluppo del soggetto, una sorta di bozza che risente del pesante intervento della regia e della produzione e in parte anche della minore esperienza di Whedon. La visione è dunque consigliata soltanto per poter apprezzare l’importanza di una struttura più complessa e approfondita (che ovviamente beneficia notevolmente dei più ampi spazi televisivi), di un casting più ragionato (per il film non era stato contemplato nessuno degli attori poi scritturati per la serie, eccezion fatta per una scena tagliata che prevedeva un cameo di Seth Green in versione vampiro) e della costruzione di personaggi di spessore sensibilmente maggiore. Qualche barlume del sarcasmo che diventerà il tratto distintivo di Buffy si scova anche in questo film (ad esempio nella scena in cui l’eroina “decostruisce” l’assurda acconciatura del vampiro Amilyn: “I’m fine, but you’re obviously having a bad hair day.”), ma per apprezzare appieno la maestria whedoniana bisognerà passare per la prima versione dell’episodio pilota (mai trasmesso in TV) e godersi infine i 144 episodi della serie vera e propria (circa 6000 minuti, che però vi peseranno molto meno degli 85 di questa pellicola!). I più temerari potranno poi affrontare il remake del film previsto per il 2012: ci diamo quindi appuntamento qui fra un annetto o due per scoprire se la Buffy post-Sarah Michelle Gellar farà rimpiangere persino Kristy Swanson!

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