Nato nel 1936 come serial radiofonico, “The Green Hornet” narra le vicende di Britt Reid, editore di giorno e giustiziere di notte, dedito a combattere il crimine insieme al suo assistente asiatico, Kato. Successivamente le storie de il calabrone verde hanno conquistato il cinema, la serialità televisiva e, negli anni ’50, anche gli albi a fumetti. Dal 28 gennaio, invece, ritroviamo i due eroi a bordo della super accessoriata “Black Beauty” intenti a combattere il boss della criminalità organizzata di Los Angeles, Benjamin Chudnofsky, interpretato dal premio oscar Cristoph Waltz, con l’aiuto di Cameron Diaz nei panni della segretaria Lenore Case. La trasposizione cinematografica vede, nel ruolo del famoso vigilante mascherato, l’attore statunitense Seth Rogen mentre, dietro la macchina da presa, il film si avvale dell’illustre direzione di Michel Gondry.

Il regista francese si ritrova così a dirigere il suo primo blockbuster dopo piccoli progetti indipendenti nei quali la sua smisurata creatività si sostituiva alla computer grafica per favorire un universo del possibile più vicino a quello di un artigiano che a un insieme di pixel. Pensiero esplicito in “Be Kind Rewind” in cui Jack Black e Mos Def realizzano dei remake hollywoodiani in VHS, con l’utilizzo di effetti digitali e scenografie fatti in casa: una vera e propria dichiarazione di sfida verso un impero cinematografico ormai incapace di “fabbricare” sogni, originalità e fantasia.

Con queste premesse risulta spontaneo chiedersi: cosa porta un’artista così riconoscibile a scegliere un progetto ad alto budget? E, a differenza dei precedenti lavori anti computer grafica, cosa aggiunge il 3D al nuovo film? la risposta è semplice: “Due o tre euro“, parola di Michel Gondry.  La battuta del cineasta, rilasciata al settimanale “FilmTV”, riassume perfettamente il secondo avvento della stereoscopia: un incasso maggiore per i produttori e un gran malditesta per noi, gli spettatori.

Ma per il mio feticcio cinefilo sono disposto a fare qualsiasi cosa, anche ad entrare in sala con l’obbligo del 3D (inutile in questo caso), con la speranza di ritrovare un po’ di quella mente immacolata che ha segnato profondamente il mio immaginario onirico. Come non detto, lo stile artigianale di Gondry è presente in un paio di brevi sequenze su 120 minuti di pellicola e non bastano, specialmente se nella tua filmografia c’è  Eterna sunshine of the spotless mind”, scusate siamo in Italia,  “Se mi lasci, ti cancello”.

Certo, la dissoluzione dell’ impronta autoriale era prevedibile, infatti non è certo la prima volta che un autore si cimenta con un blockbuster: da Terry Gilliam con “I Fratelli Grimm e l’incantevole strega” (diretto esclusivamente per poter realizzare “Tideland”), a Tim Burton con il remake de “Il pianeta delle Scimmie” la storia è piena di outsider piegati, almeno una volta e con scarsi risultati, alle regole del mercato hollywoodiano.

Fantasma dell’autore a parte, il problema principale del film risiede nella caratterizzazione dei personaggi fortemente goliardica voluta dall’interprete principale e co-sceneggiatore, Seth Rogen. L’attore statunitense, il quale proviene dalla dubbia scuola di comicità di Judd Apatow (Molto incinta), è infatti riuscito nel deleterio intento di far risulatre insopportabile Britt Reid, il calabrone verde, eccessivamente macchiettistico e quindi, dopo pochi minuti, già indigesto.

“The Green Hornet” è un ibrido di generi poco riuscito proprio per la sua sceneggiatura, sempre in bilico tra un filone e l’altro e incapace di mantenere il ritmo (essenziale in questa tipologia di pellicole). Per descrivere la presenza di Cameron Diaz, invece, mi permetto di utilizzare le stesse parole di Britt Reid nel film: “sul viale del tramonto“. Buona, invece, l’interpretazione di Cristoph Waltz nei panni del malavitoso Benjamin Chudnofsky e il riuscito cameo di James Franco.

Infine, una piccola chicca: Michel Gondy è famoso anche al popolo di Youtube per aver risolto il cubo di Rubik con i piedi e il naso!

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