Il GGG

L’attesa osmosi tra il magistrale storytelling di Roald Dahl e lo sguardo visionario di Steven Spielberg non delude gli appassionati di letteratura per ragazzi e i sognatori in genere: Il GGG è un connubio di narrazione efficace e strabiliante realizzazione visiva. La lunga genesi della pellicola, seconda trasposizione dell’omonimo romanzo del 1982 dopo la versione animata di Brian Cosgrove Il mio amico gigante (1989), ha portato a un prodotto confezionato in modo ineccepibile, pur con qualche rallentamento e qualche limite di tenuta nell’arco dei 117 minuti.

La trama, pur con qualche aggiunta, riprende la combinazione di fiabe tradizionali ed echi dickensiani in cui Dahl aveva saputo miscelare gioia, dolore, paura e ironia. Una notte il Grande Gigante Gentile, intento a soffiare i sogni belli nelle camere dei bambini londinesi, viene scoperto dall’orfanella insonne Sofia; si trova quindi costretto a portare la bambina nel Paese dei Giganti, dove però lui stesso vive da outsider, in quanto “minuto” e vegetariano (l’indole e i gusti di personaggi come Inghiotticicciaviva e Tritabimbo sono palesemente incompatibili tanto con i “cetrionzoli” e lo “sciroppio” del nostro eroe, quanto con la sua eponima gentilezza). Seguono naturalmente inseguimenti, separazioni, riunioni, stragi annunciate e sventate grazie all’intervento nientemeno che della Regina Elisabetta II, risolutivo anche per Sofia stessa.

Il già amatissimo racconto di Dahl trova un’ottima cassa di risonanza nella sceneggiatura della compianta Melissa Mathison, “mamma” di E.T.: mutatis mutandis, il GGG riesce infatti a toccare il cuore come l’adorabile alieno, anche grazie allo sguardo umanissimo e alle movenze goffamente delicate di Mark Rylance, gigantizzato con un’ottima combinazione di motion capture trasposta su scenari mozzafiato in CGI efficace ma mai pesante. Gradevole anche il ritorno dei modi nobili ma pragmatici di Penelope Wilton (la parvenue Lady Isobel Crawley di Downton Abbey). L’alternanza delle prospettive di Sofia e del GGG restituisce una rappresentazione a tutto tondo arricchita dal curioso linguaggio del gigante, ricco di giochi di parole inconsapevoli (in italiano fedeli alla storica traduzione di Donatella Ziliotto, con l’eccezione di “human beans”, passato da “popolli” a “esseri urbani” per esigenze di doppiaggio).

Il risultato complessivo è parzialmente penalizzato dalla semplificazione eccessiva di alcuni elementi come la venatura dark e il fondo di critica socio-antropologica, sempre presenti in Dahl. Discutibili anche l’abuso di comicità slapstick e certe derive saccenti della piccola protagonista, la pur brava esordiente Ruby Barnhill (forse penalizzata dal doppiaggio italiano). Tuttavia la storia immortale, la magnificenza visiva (meravigliose, per esempio, le coloratissime sequenze sui sogni) e la poetica fusione di due solitudini così diverse eppure così simili sono più che sufficienti per far pendere la bilancia verso un giudizio ampiamente positivo.

Alice C.Thomas M.
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