Arrival

In Arrival, dell’ottimo Denis Villeneuve, c’è una scena che riassume tutto il film. Vediamo un gruppo di esseri umani, tra cui la linguista Louise (Amy Adams), entrare dentro un’astronave aliena. Per farlo, devono salire con una piattaforma elevatrice dentro a un pozzo verticale. A metà strada, la gravità cambia direzione e il pozzo diventa un corridoio in cui gli umani possono camminare. Per farlo, devono superare tutto quello che l’istinto dice loro, buttandosi verso qualcosa di inconcepibile. Un vero e proprio ribaltamento di prospettiva, fondamentale per comprendere la realtà che incontreranno.

La scena, che somiglia molto a una del romanzo Incontro con Rama di Arthur Clarke, chiarisce subito gli intenti del film. Villeneuve adatta un racconto di Ted Chiang usando la propria idea di sense of wonder: la vera spettacolarità risiede nel minimalismo, nello stringere sui personaggi, al punto che bastano pochi sguardi tra gli attori per intuirne pensieri e intenzioni. Mostra e non mostra, e il suo non far vedere aggiunge potenza a quello che invece arriva davanti ai nostri occhi. Insieme ai personaggi, viviamo intensamente attese e svelamenti quando l’ignoto si palesa.

I contenuti del film sono gli stessi del racconto, che parla della nostra mente, della conoscenza e delle sue possibilità. Ma l’adattamento si spinge in nuovi territori, costruendo un’ambientazione militare carica di tensione, nella quale gli scienziati sono pesci fuor d’acqua che fanno sforzi enormi non solo per comunicare con gli alieni, ma anche per farsi capire dai funzionari dell’esercito.

La fantascienza di Arrival è la più illuminata, quella che ci parla di contaminazione e trasformazione attraverso il rifiuto della violenza. Louise compie una serie di atti di fede non perché sia mossa da un sentimento religioso o fanatico, ma perché è convinta che lo scopo degli alieni sia comunicare, e non distruggere. Uno dei nodi di Arrival è proprio la comunicazione, ovvero cosa è necessario perché essa sia possibile; a partire dalla disposizione d’animo di chi la deve stabilire e interpretare.

Villeneuve è un autore che ama riflettere sulla natura della violenza. Questa volta lo fa con un film che appartiene al filone del primo contatto (Incontri ravvicinati del terzo tipo, Contact). E, pur semplificandole, richiama le idee della trilogia della Xenogenesi di Octavia Butler, che ragiona sullo scambio tra biologie e culture aliene.

Nei concetti, nella riflessione tra tempo e narrazione, Arrival ricorda il primo Christopher Nolan. Si parla di tempo, di memoria, di percezione. I plot twist sono funzionali al significato della storia, e non semplici dispositivi narrativi usati per sorprendere. Sono quei ribaltamenti di prospettiva che ci calano nella stessa posizione degli scienziati che entrano nel corridoio verticale dell’astronave.

Ma, alla fine, la vera forza di questo film non si trova nei suoi incastri narrativi perfettamente riusciti, quanto nel saper cogliere quel senso di meraviglia, paura e curiosità per l’ignoto che caratterizza noi, la razza umana.

Sara M.Alice C.Antonio M.Davide V.Edoardo P.Eugenio D.Ilaria D.Michele B.
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