Elysium è il film che segna l’esordio hollywoodiano di Neill Blomkamp, talentuoso regista sudafricano che aveva messo d’accordo pubblico e critica con il sorprendente District 9 (2009). Qui l’autore ritorna a calcare i sentieri della fantascienza post-apocalittica, mostrandoci un’umanità dell’anno 2154 divisa in due categorie: i pochi eletti che vivono da nababbi sulla piattaforma spaziale di lusso che dà il titolo al film, e la maggioranza rimasta sulla Terra, ormai devastata da povertà, inquinamento e malattie. Il protagonista, impersonato da Matt Damon, si lancia in una rischiosissima quanto disperata impresa che dovrebbe offrire un futuro anche ai disgraziati come lui.

Temi e iconografia non sono certo nuovi nel panorama sci-fi contemporaneo (il divario esagerato fra le classi sociali, con la salute dei cittadini ridotta a bene disponibile, ricorda In Time; il desolato scenario terrestre richiama le bidonville di Johannesburg in cui era ambientato District 9), eppure Elysium si lascia guardare grazie alle innegabili capacità di narratore di Blomkamp, che riesce a dare buon ritmo a una vicenda semplice e, a dire la verità, ben poco originale, con sequenze d’azione piuttosto sobrie e un uso moderato degli effetti digitali.

La concezione di base è quella di una fantascienza adulta che cerca di sollecitare la coscienza dello spettatore con chiari intenti di denuncia sociale (in questo caso, contro le disuguaglianze del sistema sanitario privato), ma il risultato è efficace solamente a tratti. Riprendendo un discorso già affrontato nel precedente film del regista, la maturazione del protagonista – da perfetto ingranaggio del sistema a rotella impazzita pronta a farlo saltare – passa poi attraverso il progressivo disfacimento del corpo, via via sempre più martoriato e meccanico, secondo uno schema che richiama l’estetica cyberpunk, da Tetsuo di Shinya Tsukamoto (ma senza la violenza grafica) a Johnny Mnemonic (per l’uso del cervello umano come banca dati).

Purtroppo, quello che manca veramente in questo film è il coinvolgimento emotivo, anche per colpa di una caratterizzazione non convincente, con personaggi piatti o poco approfonditi (soprattutto nel caso del ministro della difesa impersonato da Jodie Foster, troppo legato allo stereotipo del politico cinico e ambizioso), nei quali non è facile immedesimarsi. Fa eccezione giusto lo spassoso villain interpretato da Sharlto Copley (già protagonista di District 9), che ruba la scena a un imbambolato Matt Damon con una prova di assoluto istrionismo.

In sintesi, un film modesto, dai nobili intenti e dalla resa accettabile, ma privo della forza dirompente e della genialità del suo predecessore.

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Antonio M.Edoardo P.Giacomo B.Leonardo L.Sara M.
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