Quando, nell’aprile del 2007, andò in onda per la prima volta, nei cieli di SKY, la prima stagione di Boris, fu come prendere una boccata d’aria. Proprio come piccoli pesci, abituati ai limpidi oceani dei palinsesti americani, le acquitrinose programmazioni delle nostre tv sembravano, infatti, toglierci il fiato. Annaspavamo in fondali limacciosi, fra Grandi Fratelli e Zii d’America, Medici in famiglia e romanzetti in costume. Poi, proprio dal cielo, è arrivata una voce: “Smarmella tutto!”. E il buon Biascica, come sempre, aveva obbedito, inondando di luce il nostro mare mediatico.

Dissacrante e acuto, caustico e autoironico, Boris, guardava alla (e dalla) tv, senza censure e freni. Con il gusto scanzonato dei teatri off,  la troupe de “Gli occhi del cuore” metteva alla berlina i vizi e i malcostumi del nostro piccolo schermo. Sceneggiatori incapaci, in grado di realizzare copioni con il pilota automatico, attori “cani”, raccomandati e senza alcun talento, produttori corrotti, tecnici inetti e fannulloni, prendevano così la scena mostrando, senza ipocrisie, il dietro le quinte della nostra televisione. Era come se, d’improvviso, tutti i racconti che da sempre si tramandano gli addetti ai lavori, fossero diventati i veri protagonisti di una serie tv.

Un gioco divertente e spassoso che, proprio grazie alla grande autoironia dei suoi personaggi, diventava al tempo stesso tremendamente comico e drammaticamente realistico; come nel caso di Stanis La Rochelle, al secolo Pietro Sermonti, prima vero Medico in famiglia e ora interprete del suo inguardabile (ed esilarante) clone.  Ma è probabilmente nella figura di René Ferretti (Francesco Pannofino), deus ex machina della serie, che meglio si incarnava la caustica e preoccupante rappresentazione della nostra televisione (e dunque della nostra società).

Il regista de Gli occhi del cuore, faceva infatti del compromesso spicciolo, della soluzione al ribasso, del sotterfugio la sua filosofia di sopravvivenza. Non è un caso che il suo motto, “a cazzo di cane”,  sia nel tempo diventato il manifesto involontario di molti aspetti della nostra società. Falso e ipocrita verso la sua troupe, servile e meschino con la produzione ed il potere, Ferretti metteva infatti in scena il peggio che la cultura italiana da sempre rappresenta. Tutto questo veniva raccontato in Boris in modo semplice e diretto, senza metafore o significati nascosti. Vedere una serie del genere  in onda su una rete televisiva era probabilmente impensabile: le leggi del mercato, la paura (forse anche la vigliaccheria) dei produttori mainstream, avrebbe messo lacci e censure, obblighi e imposizioni.

Ma il cielo di SKY, lontano dalle pressanti percentuali dello share e dai numeri dell’audience, non aveva di questi timori. Al contrario, doveva essere in grado di offrire ai suoi abbonati quell’ossigeno che la tv generalista non dava più. Così, nell’aprile del 2007, nacque Boris e noi prendemmo una boccata d’aria.

Scritto da Giampiero Francesca.

Continua a errare con noi su Facebook e Twitter per essere sempre aggiornato sulle recensioni e gli articoli del sito.