Oscar 2017

“Degli Oscar mi interessa proprio come del Festival di San Remo”. Frase intercettata ieri, detta con evidente spirito sarcastico. La manifestazione canora nazional popolare suscita anche in me il senso del nulla, neanche fosse la fiera di ceramiche di Laigueglia. Sugli Oscar, è vero, elementi per dirne tutto il male possibile ci sono, e non pochi. Si tratta di una kermesse hollywoodiana che pone il cinema in lingua anglosassone sopra di tutto, e che concepisce solo come un contentino il premio al miglior film in lingua straniera. E l’elenco degli autori, comunque anglosassoni, cui la statuetta non è mai stata assegnata, comprende grandi geni della storia del cinema: Charlie Chaplin, Orson Welles, Alfred Hitchcock, Stanley Kubrick, Sam Peckinpah! E Woody Allen ha sempre snobbato la cerimonia, a parte quella del 2002 per la commemorazione dell’11 settembre, rifiutandosi di andare a ritirare ogni statuetta vinta.

Eppure se vediamo come si sono concentrate le ultime nomination, troviamo due film che in qualche modo rielaborano e innovano generi classici del cinema, come se a San Remo vincesse una cover di Papaveri e papere. Si tratta di La La Land, che ripercorre gli stilemi del musical passando anche per Jacques Demy e Baz Luhrmann, e Arrival, che rappresenta la versione aggiornata del tema fantascientifico del primo contatto, quello di classici del passato come Ultimatum alla Terra e Incontri ravvicinati del terzo tipo. Arrival sviluppa quella che è una delle problematiche principali nella narrazione della science fiction che prevede interazioni tra terrestri ed extraterrestri, vale a dire la comunicazione e comprensione, di solito sbrigativamente risolta con qualche dispositivo tecnologico di traduzione universale. Denis Villeneuve approfondisce il problema della decrittazione come principale nodo narrativo del film, come appunto fu il caso di quel “Klaatu, Barada, Nikto!” di Ultimatum alla Terra, film del 1951! L’incontro tra culture diverse, la necessità e lo sforzo di comprendersi, sono la negazione stessa del principio sciovinista degli Oscar di cui sopra. E la risposta anche a un film come Silence che invece si costruisce sull’omologazione linguistica, dove contadini giapponesi e missionari portoghesi del Seicento parlano tutti in inglese contemporaneo.

Il film di Scorsese è stato peraltro snobbato agli Oscar 2017, per altri motivi si presume, e comunque a torto perché si tratta pur sempre di un film straordinario. E sicuramente il discorso linguistico deve essere anche il risultato di compromessi e approssimazioni. Impossibile, per motivi di comprensione, far parlare i personaggi nel giapponese e nel portoghese del Seicento, ma i rispettivi linguaggi contemporanei avrebbero reso l’idea del confronto di culture, dell’apprendimento linguistico reciproco. Con Silence sembra di tornare a Lubitsch, a quel cinema classico ingenuo, in questo senso, dove pure sforzi di verosimiglianza c’erano. Nei classici peplum nell’antica Roma per esempio si usavano attori inglesi, dall’eloquio british più raffinato, per i romani, e attori americani, dalla parlata più slang e ‘libera’, per impersonare gli schiavi. Manco questo per Scorsese…