Può capitare, all’interno nella peggiore Mostra del Cinema forse di sempre, di imbattersi per caso in un film notevole. Si tratta di For the Love of a Man, della regista indiana Rinku Kalsy, un documentario su Rajinikanth un divo popolarissimo, in terra Tamil. La regista racconta di un personaggio cinematografico idolatrato come un messia. Il fandom dell’attore, infatti, è diventato un nuovo culto, una religione. Gli adepti, intervistati nel documentario, si dichiarano atei ma, al contrario, vivono una dedizione mistica nei confronti della loro guida spirituale. Recitano preghiere a lui dedicate e si impegnano nei precetti da lui formulati, che prevedono altruismo e attività filantropiche. Salvo poi scoprire che molti di questi adepti si sono rovinati economicamente. E ovviamente fiorisce l’iconografia, le immaginette, le icone. Alcuni ritratti del nuovo profeta lo accostano a Gandhi a voler dimostrare suo status di Mahatma, “grande anima”. E ogni suo film diventa un momento liturgico, con il pubblico di adepti che balla sotto lo schermo nei momenti musical, di cui il cinema bollywoodiano abbonda, come si fa nel Rocky Horror Picture Show. Il divismo scivola nell’idolatria. E Rajinikanth potrebbe anche decidere, oltre a rimanere attore e guida spirituale, di intraprendere la strada politica, con conseguenze imprevedibili. È forse scontato, ma i brani dei suoi film, che Rinku Kalsy ha inserito nel documentario, sono di un trash inverosimile. In uno di questi lo si vede in un’acrobazia inverosimile, costruita con il meccanismo del constructive editing.

Potremmo liquidare questo fenomeno da un punto di vista sociologico, secondo stereotipi di una società povera e poco istruita, che ha prodotto tanti guru e santoni, anche se i seguaci mostrati nel documentario sembrano avere un buon livello di reddito e di istruzione. Potremmo paragonare questa vicenda a quella di Close-Up (si intende il film di Kiarostami) e riflettere sul potere del cinema. Ma di più. For the Love of a Man mette in luce i principi comuni che presiedono il cinema quanto la religione. Non sono entrambi governati dalla sospensione dell’incredulità? Nel documentario vediamo alcuni adepti fissarsi dei ganci nella carne viva, per partecipare a una manifestazione. Si tratta di una forma di trance, ma non è una forma di trance anche il cinema? La setta degli Avventisti del settimo giorno fu fondata in America nell’Ottocento. Il cardine centrale di questo culto era la credenza di un ritorno di Cristo sulla Terra tra il 1843 e il 1844. Pur non essendosi verificata questa profezia, la Chiesa avventista non è scomparsa come sarebbe logico essendo venuto meno il suo principio fondante. I suoi seguaci, invece di ricredersi sulle proprie convinzioni, hanno trovato delle giustificazioni al mancato evento. Ancora una volta la sospensione dell’incredulità. Quella stessa che ci prende quando siamo in una sala cinematografica. Quella stessa che induce il sottoscritto a commuoversi ogni volta che vede King Kong cadere abbattuto dal grattacielo.