Un pianoforte nell’atrio, a disposizione per ogni viaggiatore in sosta che abbia voglia di suonare due note, purché non a scopo di lucro. Così si è stati accolti quest’anno arrivando a Cannes in treno, in una rinnovata e luccicante stazione dove anche un ponte di passaggio è stato rifatto riproducendo la scalinata con tappeto rosso dei divi del cinema. Le scalinate sono il simbolo del festival cinematografico più importante del mondo, la suprema Montée des Marches e la corrispettiva per l’altro red carpet che porta alla sala Debussy. E una scala precede anche ogni proiezione nella sigla del Festival, una scala al paradiso, fatta di gradini eterei, che dal mare si eleva all’empireo, con le celestiali note di Acquario, dal Carnevale degli animali di Camille Saint-Saëns. Ma proprio dalle scale di Cannes qualcosa ha cominciato a incepparsi. Ci riferiamo a una grande scala mobile all’interno del Palais, guasta, che è rimasta inutilizzabile per tutta la kermesse con grave disagio. Curioso che una macchina così efficiente e organizzata presenti una tale crepa. E curioso che, per una struttura concepita come palazzo del cinema e, seppure usata anche per altri eventi durante l’anno, che vive quei dieci giorni di maggio come la sua massima funzione, non si sia ricorsi a una riparazione da subito. La scala mobile guasta è un segnale di una macchina da guerra sempre più sclerotizzata che comincia a mostrare le sue falle, anche nella psicosi dei controlli antiterrorismo. E pure la parallela Quinzaine des Réalisateurs non ha brillato per efficienza, già dal fatto di voler agguantare, oltre quel cinema alternativo per cui è stata concepita, anche nomi di richiamo, più da concorso ufficiale, come Bellocchio e Larraín, senza fare i conti con l’unica sala a disposizione e un numero più ridotto di repliche, con le conseguenti difficoltà di gestione degli afflussi più grossi di pubblico.

Tutto ciò a fronte di una Cannes contenutisticamente ai massimi livelli, la migliore da un po’ di anni a questa parte, con i nomi più importanti sulla piazza. E se Cannes è fatta di scale, chi le scende, chi le sale, parafrasando il vecchio adagio. Chi le ha oggettivamente salite? Paul Verhoeven anzitutto, che con Elle esce da una fase incerta e riporta anche Isabelle Huppert ai massimi livelli conturbanti. Olivier Assayas con Personal Shopper materializza i fantasmi in una ghost story esistenziale dei rimpianti e dei rimossi. E invece chi scende? Paul Schrader alla Quinzaine che con Dog Eat Dog firma un’operina garbata ma che non ha davvero nulla della genialità del precedente The Canyons. In discesa purtroppo sembra anche Rithy Panh, che varia un po’ sul lavoro precedente, L’image manquante, cercando un nuovo approccio alla sua ossessione sull’olocausto cambogiano, ma cadendo in una debole video arte. Pochi registi che rimangono sulle vette più alte, come Hirokazu Kore-heda, che con After the Storm racconta ancora una delicatissima storia famigliare nipponica, o il folle catalano Albert Serra, che torna, dopo Historia de la meva mort, a temi settecenteschi, ai lumi e all’agonia, con La mort de Louis XIV. Auspichiamo quindi che le scale musicali del pianoforte vadano sempre più in alto.