[…] Sono certamente quelli che sono considerati i “nuovi territori del cinema” a fornire le prove più superlative. I due film cileni anzitutto. Pablo Larrain con El Club supera la sua trilogia sulla dittatura per puntare il dito sulla chiesa cattolica, sul suo potere, sugli abusi, in America Latina. Patricio Guzmán con El botón de nácar, parte da un documentario sull’acqua per arrivare alle tragedie storiche che l’oceano ha testimoniato, dal genocidio dei nativi ai desaparecidos. Il rumeno Radu Jude con Aferim! ricerca quei mostri di una società, come poi si sono manifestati, risalendo all’Ottocento. Il guatemalteco Jayro Bustamante con la sua opera prima Ixcanul racconta una sorta di elegia contadina nelle piantagioni di caffè in una natura aspra, dalla terra nera vulcanica sovrastata dalla montagna. Imprescindibile anche il russo Alexey German Jr. che in Pod electricheskimi oblakami concentra in un microcosmo monocromatico, costellato da scheletri di palazzi mai terminati, le ceneri di un’utopia storica e di quello che avrebbe dovuto risolverla.

E i grandi vecchi? Terrence Malick ha diviso con il suo Knight of Cups che sostanzialmente rielabora la tematica dei suoi ultimi film, il cosmo e l’uomo, in un cinema antinarrativo che funziona come flusso di coscienza, e non si evolve così molto dal precedente To the Wonder. Unanime invece il consenso per Peter Greenaway che con Eisenstein in Guanajuato racconta a modo suo del grande cineasta sovietico nel suo soggiorno in Messico per girare ¡Que viva Mexico! e lo immagina, in realtà, sprofondato nella lussuria di una sua rivoluzione sessuale, iniziato dal suo prestante accompagnatore indigeno. Ancora una volta Battiato ci aveva visto lungo, abbinando funzioni fisiologiche, anche se non proprio le stesse, al cinema del grande formalista: « E gli orinali messi sotto i letti per la notte e un film di Eisenstein sulla rivoluzione…».