Farraginosa, burocratica, decadente, fatiscente. La 74^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica rappresenta l’Italia ed è già tutta lì, nel Lido di Venezia, striscia di terra di nessuno durante l’anno, con le sue cattedrali abbandonate e incrostate come l’Hotel des Bains, esempi della gloria del passato. Con quel grande cubo rosso, orrore architettonico se non si pensa che sia comunque servito da pezza a coprire quella voragine immensa, esempio dei progetti italiani irrealizzati. Mentre la vicina, in senso temporale – precede la mostra di due settimane – Locarno ha varato in quattro e quattr’otto la sua nuova casa del cinema. Un deserto che si ripercuote nell’incapacità di accoglienza turistica, nei pochi ristoranti che perdipiù spennano volentieri i clienti, per uno dei principali eventi culturali e nazionali e per il, forse, secondo festival cinematografico del mondo.

Venezia 74

La programmazione della Mostra riflette quello che è il patchwork architettonico del Lido, fatto di sovrapposizioni posticce per aumentare ogni volta la capienza di pubblico, lo stile fascista ibridato con le tensostrutture e i cubi rossi, anche peggio della Los Angeles sbeffeggiata da Woody Allen. Venezia rimane un gigante d’argilla, che non riesce ad avere il polso dei talenti emergenti e fa fatica a contemplare il cinema che non sia occidentale. Se non soffiando film a Locarno, che comunque quest’anno si è tenuta i film migliori. E tenendo dei continenti più ‘esotici’ quei nomi già consolidati da tempo, a volte dalla stessa Mostra, come Takeshi Kitano, o John Woo, o Lucrecia Martel.

Come avevamo notato già nell’editoriale dell’anno scorso, Venezia sembra in mano a persone che si fermano cinematograficamente a dieci-vent’anni fa. E questo però, rovesciando la medaglia, è anche un grande punto a favore. La supremazia americana è in realtà sorretta dal prezioso e importante lavoro di Giulia D’Agnolo Vallan, che porta quei registi che ha sempre seguito e curato, gli ultimi leoni che a Hollywood non hanno più spazio, come William Friedkin, Paul Schrader e John Landis. Il primo, quanto mai in forma, che riesce con una telecamerina a confezionare, con The Devil and Father Amorth, un sequel de L’esorcista, ancora più pauroso di quello originale. Il secondo in concorso con First Reformed. Il terzo presente alla Mostra a vario titolo, per Venezia Classici, come giurato nella nuova sezione sulla realtà virtuale e per presentare la versione 3D dello storico videoclip Thriller con Michael Jackson (anche se si poteva evitare di aggiungere la penosa proiezione da videocassetta del documentario sul making of dell’epoca).

E tra i nomi della combriccola ‘Vallaniana’ ci sarebbe anche Frederick Wiseman, la cui presenza in concorso merita qualche riflessione. Stiamo parlando di una figura che sta al cinema documentario come Beethoven alla musica classica, e che è sempre stato presentato a Venezia nella sezione ‘di ricerca’ Orizzonti, mentre gli ultimi dei suoi epigoni, come Gianfranco Rosi, vincevano il Leone d’Oro. E dopo un premio alla carriera di riparazione, Wiseman si ritrova curiosamente in concorso, con Ex Libris – The New York Public Library. Dove compete con un altro documentario, Human Flow, del regista e artista dissidente cinese Ai Weiwei. Quest’ultimo rappresenta uno dei colpi più bassi di Venezia 74, un kolossal del dolore dell’umanità, che passa dai migranti ai palestinesi della striscia di Gaza, che scivola nel roboante estetismo e nel narcisismo del suo autore. Un’operazione targata Rai che nessun festival di rilievo avrebbe mai messo in concorso.

Il carrozzone si è chiuso tra diluvi e piogge monsoniche. “Il carrozzone va avanti da sé / con le regine i suoi fanti i suoi re”, cantava Renato Zero.