Song of the Sea naviga controcorrente nel mare delle produzioni contemporanee in CGI e 3D, tenendo alto il vessillo dell’animazione tradizionale, qui realizzata con tanta cura da fruttare al regista irlandese Tomm Moore la seconda nomination agli Oscar dopo quella per l’acclamata pellicola d’esordio The Secret of Kells (2009). Nonostante il premio come Miglior Film d’Animazione agli European Film Awards 2015 e il successo al Future Film Festival 2015, Song of the Sea è ancora privo di distribuzione italiana, ma la visione in lingua originale garantisce l’immersione nell’atmosfera profondamente irlandese.

Leggende celtiche sopite, ma quantomai reali, e l’Irlanda di fine anni Ottanta si fondono infatti in un racconto armonico che insegna a vedere nuovamente lo straordinario nel quotidiano. La citazione iniziale da W.B. Yeats spalanca subito la porta fra i due mondi: su un’isola al largo del Donegal vivono il guardiano del faro Conor, il figlio decenne Ben e la figlioletta Saoirse, che si scoprirà essere l’ultima selkie, una faerie metà foca e metà bambina. Al piano reale del cordoglio per la perdita della madre, tornata al mare dopo aver dato alla luce Saoirse, del rapporto fra fratelli e dell’ingerenza della nonna si sovrappone subito il piano mitologico: la strega-gufo Macha ha privato le creature fatate delle loro emozioni, trasformandole in pietra, a cominciare dal proprio figlio, il gigante Mac Lir. Le simmetrie fra i due mondi si fanno evidenti nell’utilizzo degli stessi doppiatori per Conor / Mac Lir (Brendan Gleeson) e per la nonna / Macha (Fionnula Flanagan).

Soltanto Saoirse potrà spezzare l’incantesimo, suonando la canzone del mare con la conchiglia della mamma. A Halloween, simbolo dell’osmosi tra il magico e il quotidiano, i due fratelli cominciano così un viaggio dell’eroe in piena tradizione campbelliana-vogleriana che li porterà anche a imparare a dar voce alle proprie emozioni. La magia di Macha, villain più che mai suscettibile di redenzione, ne è didascalia letterale, ed è attraverso il percorso circolare dell’avventura che Saoirse (il cui nome non a caso significa “libertà”) comincerà finalmente a parlare e che Ben e Conor riusciranno a superare il lutto.

E circolari sono anche le forme dei meravigliosi disegni: volti e occhioni perfettamente rotondi, corpi ovoidali (compreso l’adorabile cagnolone Cú), morbide colline e rocce con pittogrammi esplicativi delle leggende. I personaggi bidimensionali si muovono su dettagliatissimi paesaggi quasi onirici in colori pastello, con echi miyazakiani (in particolare di Ponyo sulla scogliera) e un sapiente gioco di luci e ombre, correlativo oggettivo della magia salvifica che trionfa non tanto sulla morte, quanto sull’assenza di emozioni. Una magia che trova il suo corrispettivo nella splendida colonna sonora di Bruno Coulais in collaborazione con la folk band Kíla, non soltanto accompagnamento rassicurante e indelebile, ma vero e proprio strumento diegetico pre-linguistico che conduce alla convergenza dei due mondi e al recupero della capacità espressiva.

Alice C.
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