Uscito direttamente su Netflix mesi dopo essere stato presentato al Sundance Festival 2019, Wounds è il secondo film di Babak Anvari. Già apprezzato per l’esordio Under the Shadow (2016), il regista anglo-iraniano torna con l’adattamento della novella The Visible Filth di Nathan Ballingrud, pubblicata in italiano da Edizioni Hypnos.

Folklore digitale – Wounds: recensione

Wounds è un bel film dell’orrore che fin qui ha avuto una ricezione negativa da parte di critica e pubblico, salvo poche eccezioni. Eppure, nonostante qualche difetto, è un’opera meritevole. Le sue debolezze risiedono in dialoghi non sempre brillanti e nella recitazione piatta degli attori principali, Armie Hammer e soprattutto Dakota Johnson, rispetto al resto di un cast che fa invece un buon lavoro (in particolare Zazie Beetz e Brad William Henke, quest’ultimo coadiuvato da fisico e trucco). Non eccelle la CGI delle miriadi di scarafaggi che ricoprono il film, né l’autocompiacimento ingenuo della soluzione visiva che li inquadra alla fine – anche se l’unico errore davvero grossolano è Hammer che chiama “millennial” un gruppo di ragazzi sotto ai 21 anni: il millennial è lui, nato nel 1986, non loro. Ma Wounds ha ben altri punti di forza, che fanno perdonare senza difficoltà le sue incertezze.

Wounds è un adattamento straordinariamente fedele. Questo significa non solo che sa essere aderente al testo originale, ma che è capace di cambiarlo in modo appropriato quando ciò è necessario. Le modifiche restituiscono lo spirito della storia di Ballingrud e dimostrano che Anvari ha le idee chiare su come affrontare il passaggio da testo a esperienza audiovisiva.

A innescare la vicenda di Wounds ci sono un telefono abbandonato in un bar e un disgraziato barista che lo raccoglie. Anvari evita di impantanarsi nella storia di un “device maledetto”, calando il pubblico in una dimensione di folklore contemporaneo molto semplice. Il centro del discorso non è sul dispositivo, ma sulla trasformazione del mondo ordinario dei protagonisti. Il digitale si limita a qualche messaggio e a un paio di foto e video raccapriccianti, brandelli di realtà che con pochi pixel possono aprire un portale non tanto metaforico su qualcosa. Lo smartphone è solo un oggetto del suo tempo, non diventa il simbolo di recrudescenze found footage o dissertazioni sui nuovi media, ma si limita a fornire la sensazione di assistere a una leggenda urbana che prende vita oggi. In questo, si può individuare un’affinità con la serie tv Channel Zero, in cui ogni stagione è l’adattamento di un creepypasta – il folklore digitale per eccellenza.

Orrore urbano e vita da bar – Wounds: recensione

L’ambientazione di Wounds si distanzia da quelle più gettonate nell’horror odierno. Non siamo in un bosco o su un lago, nessuno sta traslocando nella casa infestata di un elegante sobborgo; e non è nemmeno sempre notte. Siamo per le strade di New Orleans, attraversiamo il traffico, andiamo al parco. Le luci dei neon rendono tutto più squallido dentro al bar in cui lavora il protagonista Will, un luogo che il film ci fa conoscere bene.

Will è un alcolista funzionale, elemento che il film chiarisce subito con alcuni dettagli. Chi non conosce la vita da bar potrebbe non coglierli tutti, ma Wounds è straordinariamente preciso nel descriverne gli aspetti. Il bar di Will è raccontato secondo le caratteristiche universali di quel tipo di luogo: la famiglia allargata, tanto accogliente quanto disfunzionale, di bevitori forti; le chiacchiere, le risse, i flirt e le notti infinite. C’è persino il rientro a casa. In Wounds non manca nulla, nemmeno gli aspetti malefici del bar e del bere. C’è la peer pressure quando un compagno di sbronze non se la sente. C’è la metodicità con cui Will si somministra birra e superalcol mantenendo sempre lontana l’angoscia. Eppure il film non è un dramma esistenziale travestito da horror, ma una vera discesa nell’incubo favorita da un’ambientazione che di rado appare nel cinema fantastico – gli esempi più recenti associabili a Wounds sono Antibirth e Colossal, ma entrambi sono stilisticamente distanti dal film di Anvari.

SPOILER ALERT – Wounds: recensione

La vicenda umana raccontata su questo sfondo è tetra, con il vero orrore affidato alla sporcizia dei luoghi e allo squallore esistenziale, più che alla grammatica horror, che è comunque presente e puntuale. Will pare quasi un personaggio da Tales from the Crypt, con una parabola tipica di certe short story horror: un tipo moralmente corrotto, che non è consapevole di esserlo o che in ogni caso si sente dalla parte della ragione, e se ne va incontro al proprio destino. La corruzione di Will è mostrata – non senza una lieve punta di moralismo – attraverso lo stile di vita, costruito interamente al servizio delle sue dipendenze. Alcolista e occasionalmente drogato, aspirante traditore senza rimorsi, Will cede ai vizi finché la realtà si squarcia lasciandogli intravedere un’oscurità di tutt’altro spessore, che finisce per ipnotizzarlo.

Will ha rinunciato senza pentimento alle proprie ambizioni borghesi sostituendole con l’alcol, ma la manifestazione di un piano della realtà occulto gli rivela che sotto sotto si sente incompleto; ora che percepisce una dimensione altra, ha bisogno di essa per completarsi – obiettivo che viene raggiunto in un finale che non si può dire lieto ma neanche tragico; disgustoso, questo sì, ma è l’intenzione del film. Will è un uomo dedicato alla soddisfazione dei propri bisogni, una persona che nemmeno nota quelli del prossimo e che compie un viaggio nell’orrore perfettamente coerente con questi presupposti. Lo si potrebbe descrivere come la discesa nel putridume di un Jack Torrance che non mette mai in discussione il proprio alcolismo.

Wounds è un film in cui il mistero non ha bisogno di grandi spiegoni finali, tutto è soltanto suggerito perché gli elementi sono abbastanza forti da vivere senza bisogno di essere accompagnati da didascalie: un trattato misterioso, rituali esoterici, sacrifici umani, qualcosa che sfida le leggi della realtà; ma non sappiamo mai bene esattamente cosa e in che modo. E va bene così: accentandolo, questo mistero diventa più spaventoso.

Sara M.
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