Claimed, undicesimo episodio di questa quarta stagione di The Walking Dead, è davvero un episodio bellissimo. O forse è semplicemente una puntata niente male che risulta così straordinariamente emozionante dopo una ripresa di stagione tra le più fiacche di sempre. Ci sono addirittura dei momenti di tensione (!), di chissà-che-succede-ora, a cui ormai eravamo del tutto disabituati, assuefatti al soporifero schema fisso degli ultimi episodi: prendi un personaggio, fallo vagare, fagli incontrare degli zombie (sempre più innocui, che uno per farsi mordere deve essere proprio pirla), aggiungi un po’ di ricordi, sconforto, rabbia, speranza, fai capire quant’è maturato il personaggio, fine. Certo, anche in Claimed continua lo scavo psicologico ma parliamo di Michonne e del suo misterioso e tragico passato non del diario segreto della piccola Beth o dell’adolescenza ribelle di Carl, risvolti non così appassionanti da meritare tanto approfondimento.

Ma andiamo con ordine. Avevamo visto Michonne raggiungere Rick e Carl nella casa in cui si erano rifugiati, sistemazione tutt’altro che permanente, come appare subito chiaro a tutti – e come sarà ancora più evidente nel corso della puntata. Una semplice separazione momentanea – Rick che rimane a casa a riposare mentre gli altri due vanno in cerca di provviste – diviene occasione per svolte importanti e toccanti momenti di condivisione. Da una parte si stringe sempre più il rapporto di amicizia tra Michonne e Carl, tanto da portare la donna ad aprirsi per la prima volta sul suo passato, sul figlio perso dopo l’inizio dell’invasione, nel tentativo di rendere meno acuta la sofferenza di Carl per la presunta morte di Judith. Il crescendo della sequenza è perfettamente dosato, a partire dallo spunto leggero e giocoso dell’esplorazione di una nuova abitazione sino al climax del ritrovamento della stanzetta dei bambini. Come già detto, in questo caso il momento di riflessione è pertinente, toccante e ben calibrato ed evita così la sensazione di filler poco utile e pretestuoso dei precedenti episodi.

Dall’altra parte Rick, ancora provato dallo scontro alla prigione, viene presto risvegliato da un’incursione tutt’altro che amichevole. Il confronto con la gang di selvaggi, risprofondati in una condizione di abbrutimento e pulsionalità pre-civile, è un topos irrinunciabile del genere che anche in questo caso risulta particolarmente efficace. E la lotta per la sopravvivenza di Rick, tra nascondigli, tentativi di fuga e terrore per il possibile ritorno del figlio è davvero tesissima.

Ma la vera svolta narrativa ruota attorno ai nuovi personaggi visti sul finale della scorsa puntata, in cui incappano Glenn e Tara: il Sergente Abraham Ford e Rosita Espinosa, in viaggio verso Washington DC con il dottor Eugene Porter, che prefigurano una possibile linea comica per la serie – basterebbero i baffi a manubrio e le pettinature anni ’80, senza parlare delle boutades ingenuamente superomistiche alla fix the whole damn world! di Abraham – e al contempo ad aprire nuove prospettive di senso sull’intera vicenda. Eugene Porter, infatti, sembrerebbe avere informazioni vitali sulle cause dell’epidemia e quindi, forse, su una possibile soluzione. Ed è intelligentissimo, come lui stesso si premura di sottolineare dopo aver preso a mitragliate il serbatoio del camion su cui viaggia l’intera comitiva, nel tentativo di colpire degli zombie in avvicinamento. Glenn si trova così ad avere degli inaspettati compagni di viaggio nella sua ricerca sulle tracce di Meg. Convergeranno tutti verso il misterioso Terminus, il campo di sopravvissuti lungo i binari del treno, dove ora sono diretti anche Rick, Carl e Michonne? Questa è ancora un’incognita ma intanto ci siamo risvegliati dal torpore ed è di certo una buona notizia.

Scritto da Barbara Nazzari.

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