[Trigger warning: questo articolo parla di violenza, stupro e suicidio. La serie presenta rappresentazioni visivamente esplicite di stupro e suicidio]

“Scusami, ma mi hai davvero ferita”. Queste le parole che Hannah Baker (Katherine Langford) sibila all’altro protagonista della serie, Clay Jensen (Dylan Minnette), al termine del primo episodio di 13, l’unico e ultimo momento in cui Hannah riesce a esprimere apertamente, almeno a qualcuno, il suo dolore per il primo degli episodi di slut shaming di cui è vittima. Dopo questo momento, Hannah non riuscirà quasi più a esternare il proprio senso di impotenza, inadeguatezza e solitudine, e non riuscirà quasi più a chiedere aiuto. All’inizio della serie, infatti, Hannah già non c’è più: c’è solo il suo liceo, e un insieme di persone (i suoi amici, i genitori, i “nemici”) che, come Clay, devono fare i conti con il suo suicidio.

13 è una serie scomoda – e necessaria – che con coraggio si impone di parlare di temi come la violenza e il suicidio, attraverso un racconto su più piani temporali che, grazie a una voce inattesa, conduce lo spettatore alla scoperta di come è successo quello che già sappiamo essere successo. La voce inattesa, tra il dolore, lo sconcerto e l’apparente indifferenza di chi è rimasto scava un solco nella vita dei sopravvissuti – in particolare di Clay. L’ambientazione high school e i problemi che affrontano i personaggi fanno rientrare la serie decisamente nella categoria teen, riuscendo a dimostrare – e ce n’è bisogno – che i prodotti cosiddetti “per adolescenti” non hanno niente da invidiare a quelli “per adulti” in quanto a complessità di scrittura e personaggi, quando trattano con coraggio ed empatia i propri personaggi e le proprie storie.

Ci sono molte ragioni per cui questa serie fa la differenza nella rappresentazione della rape culture e una su tutte è il mostrare che lo stupro non “succede” per caso ma che sono tante cose – alcune piccole altre ben più gravi – che contribuiscono a fare vivere tutt* in un mondo in cui la violenza è quotidiana. Hannah racconta nelle sue cassette i tanti episodi che hanno contribuito progressivamente al suo sentirsi in pericolo e violata, ma non sono solo gli episodi di violenza fisica più efferati (che la serie mette in scena nella maniera più cruda possibile) a distruggerla, sono tutti gli altri comportamenti, a volte anche chiaramente inconsapevoli da parte di chi perpetra la violenza, che rendono tutto più insopportabile. Perché non ci sarebbe niente di male in una foto scattata la notte del tuo primo bacio se quando viene condivisa con tutta la scuola le persone si arrabbiassero per la sua diffusione invece di umiliarti.

Non tutto è perfetto in questa narrazione angosciata, e molte polemiche ha scatenato la scelta (discutibile) di mostrare esplicitamente la scena del suicidio. Ma se c’è un’altra cosa che va riconosciuta alla serie, è quella di mostrare anche una rappresentazione credibile ed efficace del consenso durante una scena di sesso. Perché le cose non cambieranno non solo se non cominciamo a raccontare le cose come stanno, ma anche se non cominciamo a rendere visibili le soluzioni. Come far vedere come si fa a chiedere e dare chiaramente il consenso a un rapporto sessuale, e cosa si deve fare quando succede qualcosa e il consenso viene tolto (spoiler alert: fermarsi, subito). In questo e molto altro, 13 Reasons Why si dimostra una delle serie più coraggiose di quest’anno.

Lucia T.Giacomo B.Sara M.
998