Torna The Walking Dead dopo un midseason finale strepitoso (ma diciamo pure otto puntate strepitose) e due mesi di sofferta attesa. Nell’ultima puntata, Made to suffer, avevamo lasciato Merle e Daryl nell’Arena di Woodbury pronti a combattere di fronte a un Governatore terribilmente incazzato, sempre meno amorevole protettore della città, sempre più pronto ad abbracciare il caos. E The Suicide King si riapre così, con lo scontro appena abbozzato tra i due fratelli e il pronto intervento di Rick e Maggie che, tra sparatorie e fumogeni, riescono a portar via entrambi i prigionieri, uccidendo una manciata di woodburiani. L’incedere alla Terminator del Governatore nella nube di fumo, occhi, ehm, occhio fisso ai nemici in fuga, non promette niente di buono, tanto più ora che, ri-morta la figlioletta zombie per mano di Michonne e svelato il macabro collezionismo di teste in formalina, il castello di carte è definitivamente crollato.

Il punto di forza della puntata sta proprio qui, in questo senso di precarietà e disgregazione imminente, che domina tutti i gruppi. L’enclave di stolida serenità di Woodbury è attraversata dalle prime rivolte intestine, invasa da walkers e, senza più il rassicurante mascellone del Governatore a fare da collante, polarizzata attorno alla figura di Andrea, portatrice di una nuova ventata di operoso realismo. Il gruppo di Rick è ad un passo dal baratro, indebolito e minacciato su più fronti: da una parte per l’abbandono di Daryl, riconciliatosi col fratello, che priva il gruppo del suo componente più forte ed equilibrato; dall’altro per il malcontento di alcuni, Glenn in primis, che avrebbero voluto Merle morto e cominciano a dubitare della capacità di discernere di Rick; infine per tutto l’universo di nuovi arrivati che minacciano la tranquillità della prigione.

Perché, dato per scontato che in questa stagione ci si sia liberati definitivamente degli scrupoli nei confronti di walkers e aggressori manifesti che tanto avevano appesantito la seconda stagione, resta il grande dilemma morale di cui Rick è incarnazione: responsabilità nei confronti delle persone amate o solidarietà verso chi, disarmato, offre collaborazione in cambio di quattro mura che lo separino dall’esterno? E la posizione di Rick non è mai stata complessa come ora, con l’incognita Michonne da una parte, Tyrese e il suo gruppo (non del tutto in buona fede) dall’altra e la minaccia del Governatore, pronto a scagliare il suo attacco alla prigione.

Se ci fermassimo qui potremmo dire, senza timore, che la puntata è all’altezza delle precedenti e al massimo registra un lieve rallentamento naturale, di preparazione ai successivi sviluppi. Se non ci fossero alcuni elementi a cui guardare, se non con preoccupazione, perlomeno con sospetto. Primo: la caratterizzazione di Michonne continua ad essere carente, fatta solo di strabuzzamenti d’occhi e labbra serrate e, insomma, dal suo personaggio ci aspetteremmo qualcosa di più. Secondo: la figlia bionda di Hershel – che probabilmente ha un nome ma non ne siamo certi – che ruolo ha esattamente, oltre a tenere il pupo e a lanciare sguardi languidi indifferentemente a Carl e a suo padre? Terzo e più importante: che Rick sia arrivato ad un livello di stress insostenibile e che presto si dovrà intervenire con una riorganizzazione dei ruoli, questo è evidente. Ma è proprio necessario sfruttare nuovamente l’effetto “apparizione mariana” della defunta Lori per renderlo manifesto? Non sono bastate due puntate di telefonate col morto per dare l’idea?

Insomma The Suicide King riconferma l’alto livello a cui la terza stagione ci aveva abituato, per coerenza e tensione, con qualche piccolo elemento dissonante da tenere sott’occhio ma non tanto da compromettere la qualità complessiva del prodotto. Tanto più ora che l’attesa si fa spasmodica per lo scontro imminente tra Rick e Governatore. It will be a fight to the death.

Scritto da Barbara Nazzari.

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