Peter Jackson, il signore dei cervelli. Si fa un gran parlare, in questi giorni, dell’uscita del film Lo Hobbit, con cui il regista neozelandese Peter Jackson, dopo il successo della trilogia de Il Signore degli Anelli, riporta sul grande schermo le invenzioni di J.R.R. Tolkien, questa volta con una trilogia di prequel. Se fino a pochi giorni fa il paventato armageddon Maya minacciava di impedirci di assistere agli altri due capitoli de Lo Hobbit, per gli appassionati di horror l’apocalisse personale di Jackson è avvenuta già da un pezzo. Esattamente 25 anni fa (1987), il regista esordiva con Bad Taste, in Italia noto come Fuori di testa, uno splatter demenziale bissato cinque anni più tardi da Braindead, ossia Splatters – Gli schizzacervelli.

Bad Taste è un film divertitamente marcio, dove di cerebrale non parrebbe esserci niente, se non la materia grigia che schizza a più riprese. Eppure, la congiuntura in cui il film fece la propria comparsa mostra tutta l’importanza di Jackson non solo per lo sviluppo del filone splatter, ma anche, segnatamente, per un ripensamento complessivo dell’horror. Sempre nel 1987, Sam Raimi licenziava La casa 2. Nel passaggio da La casa al suo sequel, la sensazione è che il regista abbia consumato il pauroso avvicinamento dall’horror al comico demenziale. Una scena come quella della mano indemoniata, nel film di Raimi dell’87, serve a spiegare questa nuance ambigua dell’horror:

Nella sequenza in cui la mano del protagonista tenta di strozzarlo, non si può più parlare di paura tout court: ci si trova di fronte ad una di quelle “iperboli del reale” tipiche del cinema demenziale. L’esercizio della paura diventa esorcismo per via di una risata isterica: la fobia non si guarisce esperendola – e rinchiudendola – nella compiutezza del testo filmico, bensì sotto forma di “paura di non aver più paura”, di aver ucciso l’uomo nero. L’orrore si fa grottesco, da quando lo spettatore è diventato scaltro e riconosce l’effetto fake dei trucchi: non ci resta che ridere dalla paura, o meglio, della paura.

Con Bad Taste (Fuori di testa) gli svolazzi di cervelli e viscere sono altrettante parentesi in cui l’orrore resta come intrappolato. La storia è quella di una squinternata pattuglia governativa, The Boys, chiamata a sgominare una banda di alieni che requisisce umani da impiegare in un fast food galattico (ma non come cuochi!). Il film gioca davvero col bad taste, col cattivo gusto, o meglio, col gusto cattivo, di andato a male, di rancido: come nella scena in cui gli alieni delibano il vomito prodotto da uno di loro, ed anche uno dei The Boys, infiltratosi sotto mentite spoglie, è costretto all’assaggio. Inizialmente riluttante, sembra poi provarci gusto, o fingere, al punto che gli si toglie la scodella da cui attingono tutti a canna. Sembra una metafora dell’incapacità dell’atrofizzazione palatale della paura: è un orrore diventato parodia di se stesso, il residuo di spazzatura – trash – di un sentimento ancestrale, un simulacro di fobia. La scene, più volte ripetute, in cui Derek – interpretato proprio da Peter Jackson – se ne va in giro, sorridente, con la testa spaccata e rattoppata alla meglio (ora con una cintura, ora con qualche pezzo di cervello), esprimono per via ludica la plasticità del corpo nel cinema dell’orrore, una manipolabilità che diventa labilità, ossia una spinta deformante così accentuata, così volutamente artata, da aver assottigliato il sentimento della paura ed averlo mutato di segno nell’esorcismo ironico – leggasi, distaccato – della demenzialità.

Con Braindead (Splatters – Gli schizzacervelli), la misura dell’orrore è colma – di sangue finto: ne vennero usati 500 litri. Il film evidenzia soprattutto come il bad taste sia programmatico e programmabile, e come lo si possa trasformare in un orrore cerebrale, non più epidermico come quello classico. Lionel, vessato da una madre bisbetica, sarà costretto a sopportarla anche in versione zombie, dopo il morso di una scimmia-ratto. Inutile dire che il morbo è contagioso. Anche qui una scena è indicativa: Lionel adibisce un tagliaerbe a motosega e compie un’incursione “frullante” in una torma di zombie.

Non v’è traccia di paura – anzi, specie col doppiaggio italiano fa capolino un’auto-ironia degli zombie verso se stessi. Compare, piuttosto, un voyeurismo macabro e fumettistico, come se l’horror fosse consapevole di essere diventato una macchina tritacarne. L’overdose di sangue, però, sembra celare una tolleranza di fondo, una sorta di insipienza del terrore, che nemmeno l’insistita profusione ematica può speziare (e spezzare).

Eppure, il personaggio di Lionel, scoglionato rispetto all’invadenza della madre ed incapace di liberarsene nonostante l’evidente “putrefazione”, possiede un fondo drammatico, annegato sotto galloni di sangue, nel delirio d’onnipotenza del tagliaerbe che neutralizza l’impotenza in una casa in cui non è padrone. Si tratta, a conti fatti, del delirio a cui si costringe l’horror, facendosi comedy, nella propria impotenza di spaventare. Come a dire: non capita più, come ai tempi dei Lumiére, che la gente possa scappare dalla sala dinanzi alla scena di un treno che avanza. Chissà, però, che la paura non colpisca a sorpresa, in maniera più cerebrale, proprio perché il demenziale abbassa le soglie della paura, e con esse, le difese della mente. In questo caso, davvero, dovremmo riconoscere in Peter Jackson il signore dei cervelli.

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Scritto da Antonio Maiorino.