Si, amore, sono gay, poverini guardali!” esclama la mamma di Mattia di fronte a un servizio sul Gay Pride. E come darle torto? Nel cinema italiano mainstream l’omosessualità di un parente a caso è la prima causa di infarto familiare. Come non detto di Ivan Silvestrini lascia il problemone dell’omosessualità ai salotti trash della televisione e sposta l’attenzione sulla percezione del protagonista. La storia, basata sull’esperienza personale dello sceneggiatore Roberto Proia, non banalizza il racconto sul piano della sessualità negata, ma si basa sul timore di non soddisfare un’aspettativa. Per Mattia è la paura di deludere parenti e fidanzato, senza però riscontrare una reale ostilità da parte loro.

A fidanzato e genitori il ragazzo inventa, nell’ordine, un nucleo familiare pro-gay, una quotidianità vissuta con orgoglio e una fuga a Madrid per lavoro. Le cose si complicano quando Eduard arriva a Roma per conoscere i suoceri, la sera prima della partenza di Mattia. Da qui si innescano una serie di siparietti da commedia degli equivoci, privi (o quasi) della comicità da bar tanto cara ai film nostrani. In parallelo, alcuni flashback mostrano l’inizio della relazione tra Mattia e Eduard insieme al percorso verso la consapevolezza di sé. L’intento è quello di raccontare la naturalezza della diversità attraverso un’idea di cinema fatta di persone e non di personaggi gay. Tutti gli interpreti hanno infatti un coming out da confessare che solo nella (s)cena finale trova una valvola di sfogo.

Secondo le tradizioni, la cena è rappresentata come un rituale catartico, rivelatore di segreti e complicità familiari, che Silvestrini esplora con sguardo ironico e quasi caricaturale (la madre sembra appartenere all’immaginario femminile di Almodòvar), fino alla rivalsa del protagonista, mostrata attraverso digressioni e primi piani al rallentatore.

Seppure non esente da didascalismi e svolte prevedibili, l’opera prima di Ivan Silvestrini è un buon esempio di come la diversità possa essere raccontata senza etichette attraverso un linguaggio universale di facile identificazione, con leggerezza e onestà intellettuale (anche se la title track di Syria è un’onta che andrebbe lavata col sangue). Merito inoltre di un cast composto da attori esordienti (Josafat Vagni e Jose Dammert) e da volti televisivi (le vj Valeria Bilello e Valentina Correani) incredibilmente in parte, insieme ai fuoriclasse Monica Guerritore e Nanni Bruschetta. Ciliegina sulla torta, Il Libanese con tacchi a spillo. Il finale conciliatorio piace non solo per il contesto italiano, ma soprattutto per la possibilità che a un coming out si possa reagire con un rassicurante Come non detto.

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