Un film senza sorrisi, ricco di metafore filmiche e di vita che ripercorre la vita di Maria, interpretata da Catalina Sandino Moreno, che di lavoro toglie le spine dalle rose insieme ad altre decine di donne in una fabbrica colombiana.

Il film, del 2004, è magistralmente girato dal regista californiano Joshua Marston con inquadrature che ricordano lo stile documentaristico. Già, perché la trama affonda le radici in un problema reale che ogni anno coinvolge molte ragazze colombiane che per guadagnare  soldi fanno le mule, cioè ingoiano e trasportano ovuli di cocaina fuori dal loro paese.

Il vero filone del film è la condizione di sfruttamento delle donne in Colombia, sottopagate in fabbrica e sfruttate come mezzi di trasporto illegali. Ma in questo sta anche la forza del film, inserito in un filone di cinema sudamericano che vede la donna come vero potere forte di una nazione, capace di sopportare soprusi e ingiustizie mentre la parte maschile tende a scomparire in un debole rigurgito di violenza fisica e debolezza mentale. Impossibile non pensare a Fausta, nella traduzione italiana divenuta Paloma per dare un senso a un titolo che un senso non ce l’ha (Il canto di Paloma invece di La teta asustada).

Ma ritorniamo al film. Maria è piena di grazia perché all’interno del suo corpo porta un figlio che ha deciso di far nascere lontano dalla sua terra nativa a New York (dove è girata la seconda metà del film) a costo della sua stessa vita. Stanca della condizione che le si prospetta a Bogotà e terrorizzata dal finire come la sorella maggiore: abbandonata dal marito con un figlio a carico in una vita fatta di espedienti. La sua vita è posta di fronte ad una scelta quando viene licenziata dalla fabbrica di “rose” a causa della nausea provocata dalla gravidanza. Sola e senza lavoro, Maria finisce nelle grinfie della spietata mafia di Bogotà, interessata alla sua gravidanza perché le consentirebbe di evitare alcune misure di sicurezza negli aeroporti e quindi di essere un perfetto corriere della droga. Cosi, guidata da un simpatico ragazzo  e all’apparenza gentile Maria accetta il “lavoretto” che consiste nel portare a New York un ingente quantitativo di ovuli di coca, ingeriti e sistemati a fianco del suo amato bambino.

Da qui parte il viaggio di Maria e della sua grazia, attraverso un film crudo ma veritiero, mai ridondante che vuole ricostruire al massimo del realismo un percorso che, come dice lo slogan del film stesso, è “tratto da mille storie vere”. Anche i dialoghi sono scarni e impotenti, parlano le situazioni e le immagini. Per una ragazza di sedici anni in Colombia i sentimenti non si dicono e non si trasmettono, non c’è spazio.

Scritto da Francesco Neri.

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