Lars Von Trier dirige Melancholia nel 2011, mandando in scena la fine del mondo attraverso gli occhi della sua protagonista Kirsten Dunst. Secondo capitolo di quella che la critica ha battezzato “Trilogia della depressione”, Melancholia viene ironicamente definito dallo stesso regista danese come il suo “disaster movie”.

Qualcosa è in arrivo dal vuoto siderale: il pianeta Melancholia, le cui dimensioni smisurate fanno apparire la Terra come poco più di un piccolo ammasso di rocce e gas. Lars Von Trier accoglie lo spettatore con una sequenza che non lascia spazio al dubbio, mostrando Melancholia in rotta di collisione con la Terra, la quale viene completamente distrutta. Signore e signori, l’apocalisse è servita. I due atti che seguiranno questo micidiale prologo costituiscono il cammino e la chiave d’interpretazione per raggiungere la distruzione definitiva.

Von Trier guarda la fine del mondo appollaiato sul cucuzzolo di un’alta borghesia genericamente occidentale, ambientando il suo dramma nella sontuosa villa di campagna dove la protagonista Justine (Kirsten Dunst) festeggia il suo matrimonio. Il secondo atto la vedrà confrontarsi con la sorella Claire (Charlotte Gainsbourg) nella medesima location, mentre Melancholia è sempre più vicino. Il personaggio di Justine sembra quasi farsi guidare da Melancholia, disponendosi ad accettare la fine del mondo. Malata di depressione, non interpreta la realtà attraverso strumenti razionali (come il rudimentale cerchio in filo di ferro che getta nel panico la sorella), ma grazie all’intuizione conosce la verità meglio di tutti gli altri. L’avvicinarsi del pianeta Melancholia, già prossimo ma ancora invisibile nel primo atto (fa scomparire Antares dalla volta celeste), sembra in un primo momento innescare la crisi di Justine, per condurla poi verso la guarigione. Affronterà dunque l’apocalisse con composta dignità, tutto sommato grata a Melancholia.

Von Trier manda in scena la fine dell’umanità e della vita nell’universo, definita da Justine cattiva senza possibilità di appello. Lo fa stratificando come suo solito richiami simbolici e iconografici, a cui s’aggiungono qui una vasta gamma di riferimenti pittorici (Bruegel, Dürer, l’Ofelia di Millais, già richiamata in Antichrist); costruisce gli iniziali tableaux vivants con ralenti esasperati che privano il tempo della sua dimensione ordinaria, la cui estetica patinata è colpevole di ricordare un po’ la pubblicità. Il resto del film, e soprattutto la prima parte, rievoca invece lo stile visivo di Dogma 95 (più che altro per camera a mano e assenza di colonna sonora). A molti ha ricordato Festen di Thomas Vinterberg, film col quale è facile tracciare un parallelismo: Melancholia rappresenta, infatti, una famiglia disfunzionale, concentrandosi con insistenza sulla tremenda festa per il matrimonio di Justine.

Il regista danese getta il suo sguardo sulla fine del mondo con lucidità assassina, costruendo come suo solito un’allegoria ma evitando l’eccessiva insistenza di altre pellicole. Il cast stellare comprende anche Charlotte Rampling, Stellan e Aleksandr Skarsgård, Kiefer Sutherland e John Hurt. Palma d’oro a Cannes per Kirsten Dunst nel 2011 nonostante le contestazioni al regista, responsabile di alcune affermazioni provocatorie sul nazismo che gli costarono l’espulsione dal festival.

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Alice C.Chiara C.Edoardo P.Giacomo B.
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