C’era una volta The Shield (7 stagioni, 88 episodi, FX, 2002-2008), uno dei migliori polizieschi drammatici della storia della serialità televisiva. Southland (5 stagioni, 43 episodi, NBC e TNT, 2009-2013) è l’unico prodotto a esserne, sotto diversi aspetti, il legittimo erede.

La serie, creata da Ann Biderman e prodotta da John Wells, arriva in Italia nel 2010, dunque in tempi relativamente brevi, sul canale AXN; e a colpire sono le inquadrature – in un “virato seppia”, che conferisce maggior realismo alle immagini di repertorio – della sigla d’apertura, sulle note di un brano strumentale di Dulce Pontes.

L’intera serie si sviluppa con una narrazione sia orizzontale sia verticale, con entrambe le direzioni fortemente accentuate. Da un lato troviamo quattro personaggi presenti in tutte e cinque le stagioni (la detective Lydia Adams, gli agenti John Cooper e Ben Sherman e Sammy Bryant, prima detective poi nuovamente agente). Tra questi, l’unico volto noto (e rassicurante) della serie è Ben McKenzie, già tra i protagonisti di The O.C., che qui rivede completamente, con una lodevole versatilità, lo stereotipo del “bravo ragazzo” che, dopo quattro anni di teen drama, rischiava di segnare la sua carriera. Dall’altro lato, ogni singolo episodio è un concentrato di azione, di inseguimenti, di casi all’ordine della quotidianità losangelina (tutta la serie è ambientata in una Los Angeles sporca, crudamente e crudelmente realistica), di personaggi principali e secondari, le cui vicende si intrecciano in un mosaico corale; e la coralità è ben più presente che in The Shield, in cui spicca invece il protagonista Vic Mackey (Michael Chiklis), anche se in Southland essa tende a scemare già dopo la prima stagione.

I primi episodi si concentrano, tra le tante linee narrative, sulla figura del giovane e inesperto poliziotto Ben Sherman, affiancato al veterano John Cooper, con il quale imparare a destreggiarsi tra i pericoli della metropoli. Alle loro vicende vengono legate quelle di altri membri dell’unità, la cui vita privata ha continue ripercussioni su quella lavorativa e viceversa: si pensi a Sammy, che patisce le difficoltà di convivenza con una moglie “fuori di testa” e la conseguente lotta per la custodia del figlio; a Lydia, che vive una inattesa gravidanza e la difficile gestione di un neonato; al detective Nate Moretta, che esce invece di scena amaramente alla fine della terza stagione.

Tra la prima e la seconda stagione la serie cambia network: la NBC annuncia la cancellazione già durante la messa in onda degli ultimi episodi, la TNT acquista il prodotto dopo pochi mesi, nel novembre del 2009. La seconda stagione riduce – abbiamo detto – il cast corale, concentrandosi maggiormente sulla vita personale e sulle indagini dei detective Adams e Sherman. E la serie diventa maggiormente auto-conclusiva e meno serializzata, ma non perde il suo fascino; anzi, episodio dopo episodio, definisce sempre meglio le sue caratteristiche stilistiche e narrative: Southland si distingue per gli originali incipit (l’azione inizia sempre in medias res, con una “punta drammatica”, descritta da una voce fuori campo, per poi tornare indietro con un flashback) e per l’uso della macchina da presa mobile (i registi o gli operatori utilizzano quasi sempre una steadycam).

Con la quarta stagione diversi personaggi abbandonano il cast (per contenere i costi, si è letto), ma una nuova figura entra nella storia (solo per la fourth season) e lascia il segno: quella del sergente Jessica Tang, interpretata da Lucy Liu, perfettamente a proprio agio nei panni dell’agente di strada.

La serie ha un finale aperto (e non poteva essere altrimenti, vista la pluralità di storie e di focalizzazioni), con il drammatico destino di numerosi personaggi principali lasciato in sospeso (non è il caso qui di entrare nei dettagli degli eventi). La nostra speranza rimane che, in futuro, altri prodotti validi come Southland possano lasciare il segno nella Storia della Televisione.

Scritto da Luca Pasquale.

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