Il Torino Film Festival di Paolo Virzì prosegue all’ombra della Mole, incantando il pubblico (nutritissimo, si parla di un aumento del 30% rispetto allo scorso anno) tra Jarmusch, Baumbach, i fratelli Coen e il “nostro” Pif. Ma al di là dei grandi nomi e dei progetti più sperimentali, c’è l’intrattenimento di massa e a questo Virzì presta particolare attenzione, con l’inaugurazione di una nuova sezione collaterale del Festival, Europop, che raccoglie i successi commerciali europei sconosciuti in Italia, e con After Hours dedicata in particolar modo al cinema di genere.

Della prima sezione fa parte The Stag, commedia scritta e diretta da John Butler, al suo primo lungometraggio di finzione. Esilarante, è stato detto, e in effetti si ride parecchio e in modo neanche troppo grossolano considerando il tema: sei uomini e una festa di addio al celibato nella natura irlandese. Ma quella che, per i primi venti minuti, sembrava un’alchimia particolarmente riuscita, si perde poi in una didascalicità tanto eccessiva da essere spiazzante. Eppure il futuro sposo Fionnan e il best man Davin (i bravi Hugh O’Conor e Andrew Scott) godono di un’ottima caratterizzazione, e i loro scambi iniziali sono particolarmente sottili e accattivanti. Ma come nella storia, l’arrivo di “The Machine”, il fratello della sposa, scombina ogni equilibrio. Non si fraintenda, Peter McDonald, qui anche co-sceneggiatore, ha certamente il physique du rôle e la bravura per dar vita a un buon personaggio, ma con il suo arrivo sulla scena il film si polarizza semplicisticamente sulla struttura “uomini adulti e istruiti che pur non sanno affrontare la loro vita e i loro problemi con coraggio” vs “spontaneità e sincerità di The Machine che indica loro la strada più semplice e quindi più vera”, costruendo tanti piccoli episodi-parabola che verranno coronati, sul finale, da tutte, ma proprio TUTTE le relative riconciliazioni (anche il padre nazi-omofobo di Fionnan diventa improvvisamente BFF del compagno del figlio minore, grazie a due minuti di telefonata). Ma tutto sommato una commedia gradevole e divertente che non poteva non conquistare il pubblico in patria, tanti sono i riferimenti identitari, le splendide ambientazioni, l’omaggio agli U2 (con The Machine che canta One al matrimonio), il brindisi finale all’Irlanda.

Non c’è Festival che si rispetti che non abbia almeno un film “caldamente consigliato da Quentin Tarantino” (parole alle quali i più assennati mettono mano alla pistola) e Torino non fa eccezione. In questi caso si tratta di Big Bad Wolves, horror israeliano di Aharon Keshales e Navot Papushado, già registi di Rabies. In bilico tra fiaba, splatter e black comedy, il film parte dal brutale omicidio di una bambina e affastella le suggestioni più disparate – la violenza della polizia, il clima di sospetto attorno alla pedofilia, la meta-riflessione sul genere, il revenge movie, il twist finale che fa della vittima il possibile carnefice – in un mix confuso e sopra le righe. C’è anche un cowboy arabo che osserva pacatamente dall’esterno l’affannarsi dei rancorosi personaggi attorno alla casa dell’orrore (e chi ci vede uno apprezzabile spunto di autocritica sulla situazione territoriale israeliana è veramente un’anima candida). Le anziane signore accanto a noi in sala commentavano: “a me questo film non è mica piaciuto tanto”. Non possiamo che dar loro ragione.

Scritto da Barbara Nazzari.

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