Ogni volta che un regista si toglie la vita – e negli ultimi tempi purtroppo anche Mario Monicelli e Tony Scott ci hanno salutati con un salto nel vuoto – ci vengono in mente un’immagine atroce e un urlo: il finale di Il grido (1957) di Michelangelo Antonioni, in cui il protagonista Aldo si lancia da una torre della fabbrica in cui lavorava prima di licenziarsi; e il grido che annienta ogni speranza è quello della sua donna, che ci ha sempre riportato la mente all’immagine dell’Urlo di Edvard Munch.

Carlo Lizzani – morto suicida a Roma, il 5 ottobre, a 91 anni, gettandosi dal balcone del suo appartamento romano – inizia la sua carriera alla fine degli anni Quaranta (la prima attività è segnata da alcuni, quasi inevitabili, cortometraggi documentaristici, diretti sugli ultimi strascichi del neorealismo del secondo dopoguerra), ma è con il suo primo lungometraggio Achtung! Banditi! (1951) che diviene noto a tutti.

Sempre degli anni Cinquanta sono altre sue opere importanti, dalla collaborazione al film collettivo (tra gli altri registi, Antonioni, Fellini, Lattuada, Maselli, Risi e Zavattini) L’amore in città (1953) al successivo, corale Cronache di poveri amanti (1954), tratto dall’omonimo romanzo di Vasco Pratolini.

Lizzani segna la Storia del cinema italiano soprattutto in quanto autore di forte impegno civile, di denuncia dei soprusi che poveri e innocenti subiscono e hanno sempre subito: L’oro di Roma (1961) si basa sui fatti reali del rastrellamento del ghetto di Roma, avvenuto nell’ottobre 1943, mentre Il processo di Verona (1963) racconta le fasi terminali del regime fascista; fascismo a cui torna in seguito con il melodramma storico Mussolini ultimo atto (1974).

Dal 1979 al 1982, dirige la Mostra del Cinema di Venezia, rilanciando il Festival – a cui cambia anche il nome, da Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica a Mostra Internazionale del Cinema – dopo le contestazioni, gli “anni di piombo” e le sospensioni degli anni Settanta.

Il suo impegno e la sua passione non si spengono neanche negli ultimi anni: si pensi in particolare a Hotel Meina (2007), ultimo lungometraggio di finzione del regista romano, che si ispira però a fatti realmente accaduti durante la Seconda guerra mondiale: rimane dunque sempre presente, quasi tangibile, nelle sue opere, la sua partecipazione alla Resistenza e la sua adesione al Partito Comunista Italiano, eventi che condizionano ineluttabilmente la sua vita e i suoi film.

Ma Lizzani è anche autore di cinema letterario, talora forse didascalico: dalle già citate cronache pratoliniane a La vita agra (1964), ispirato al romanzo di Luciano Bianciardi, da L’amante di Gramigna (1968), la cui fonte è l’omonima novella di Giovanni Verga, a Fontamara (1977), tratto dal romanzo di Ignazio Silone a Celluloide (1996), tratto da un soggetto di Ugo Pirro, che racconta in maniera romanzata la genesi di Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, film-manifesto del neorealismo italiano.

Lizzani è stato infine anche critico e saggista, attore e produttore, storico del cinema, naturalmente sceneggiatore. Ma, su tutti, è il regista civile che la Storia del Cinema ricorderà e che noi ricorderemo sempre.

Scritto da Luca Pasquale.

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