Il movimento nudo e puro, l’osservazione analitica del moto di Muybridge apre, mediante le immagini di un uomo svestito che corre, l’ultimo film di Leos Carax, Holy Motors, e ci parla di un tempo – ancora nostro – di “motori visibili” (la limousine che trasporta il protagonista) in cui l’azione, il gesto, la bellezza hanno a che fare inevitabilmente con la visione. E col sogno e con la meraviglia.

La prima sequenza, una sorta di prologo, ha tutti gli elementi dell’onirico. Un uomo in pigiama (Leos Carax), fa una scoperta all’interno di quella che sembra essere una camera d’albergo. Il sognatore rinviene una porta nascosta che lo conduce in una sorta di Wunderkammer: quella sala cinematografica dove proiettiamo desideri e visioni e spiamo le vite degli altri. All’interno della sala occupata da un pubblico informe, apparentemente muto e cieco, respiriamo un’atmosfera enigmatica, “lynchianamente” inquietante e destabilizzante, per poi fare la conoscenza del protagonista dai mille e nessun volto, il signor Oscar.

Dall’alba al tramonto percorriamo in limousine una Parigi notturna e rarefatta insieme al signor Oscar e alla fedele autista Céline (Edith Scob). Assistiamo alle messe in scena di Oscar, questa sorta di trasformista che fa della vita uno spettacolo, di ogni parola, gesto, espressione un’opera destinata a un pubblico che è lì, che lo osserva, e vuole credere a ciò che vede. Osserviamo Oscar, seguiamo con gli occhi le sue metamorfosi da uomo d’affari a mendicante, da mostro delle fogne a padre alle prese con le bugie di una figlia adolescente, da assassino a mecenate morente. Ma chi è Oscar?

Si può azzardare che si identifichi con lo stesso Carax, che non a caso all’anagrafe si chiama Alexandre Oscar. Come il protagonista del film, Carax crea situazioni, compone immagini, mette in mostra un repertorio di scene grottesche, bizzarre, talvolta raccapriccianti, più spesso sofisticate, e anche irriverentemente pop (si pensi alla sequenza con Kylie Minogue improntata sullo stile dei musical di Broadway).

A Carax non interessa il racconto di una giornata, la narrazione di eventi tenuti insieme dal nesso di causa-effetto. Il regista francese vuole ricondurci all’essenza primaria del cinema: all’atto stesso della visione che è atto creativo e fecondo. Vuole farci confrontare con la bellezza: prima attraverso il volto glaciale e le pose statiche della modella Kay M, una sensuale e penetrante Eva Mendes, che viene rapita dalla “bestia”, il signor Merda, metà fauno rapitore metà mostro che ingurgita fiori, che fagocita persino capelli. Un ingordo, un accumulatore di dati, di suggestioni, di manifestazioni vitali come ogni curioso, come ogni buon osservatore sa essere. E protettore: quando conduce la bella ninfa nella sua caverna si preoccupa di coprirle il decolleté e la avvolge in un burqa. Volontà di custodire e preservare il bello o fanatismo? Del resto la bellezza ha a che fare col peccato.

La bellezza è la ragione di vita di Oscar: questo illusionista, che ha il corpo snodabile e il volto impenetrabile di Denis Lavant, confessa a Michel Piccoli che se continua a fare ciò che fa è solo “per la bellezza del gesto”, perché fino a quando esisterà un osservatore, un occhio che guarda, la bellezza farà parte di questo mondo. “E se non c’è nessuno a guardare?” domanda Piccoli. Mancherà ogni propulsione d’amore, ogni motore di vita, sembra suggerire Carax con una delle ultime sequenze, dove una giovane ereditiera accorsa al capezzale dello zio benefattore piange regalandoci un’immagine di raffinata bellezza e impara che la morte può essere buona, ma mai bella come la vita.

Scritto da Vera Santillo.

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