La potevano chiamare anche Cinema Errante, la 55esima Esposizione Internazionale d’Arte, meglio nota come La Biennale di Venezia, a cura del più giovane direttore nella storia, Massimiliano Gioni. Già, perché quella voluta dal nemmeno tanto imberbe curatore non solo è un’edizione della mostra che riserva ampi spazi alle performance, ma è anche un itinerario di immagini, un’erranza in movimento – “kinema” –  dalle tappe poco rigide e aperte a deragliare nella fuga, nell’immaginazione e nell’onirico. Non si pensi, dunque, alla gabbia dei lemmi, nell’apprendere del titolo Il Palazzo Enciclopedico: si tratta di una metafora ispirata all’artista italo-americano Marino Auriti, che nel 1955 depositò all’ufficio brevetti statunitense il progetto di un museo in grado di comprendere tutto lo scibile umano. Non una Treccani, la successione di padiglioni (150 artisti, 38 nazioni), quanto una ricognizione di mondi diversi, una ricerca sull’universo relazionale degli artisti, mobile e suggestiva nello spazio come nel tempo, nel rapporto con opere del Novecento quanto nel dialogo insopprimibile col mondo attuale: “Oggi, ci sembra dire Gioni, è la realtà ordinaria a offrire su una tavola imbandita una pletora di immagini e visioni per l’uso quotidiano”, spiega il Presidente Paolo Baratta, “e che tutte ci colpiscono senza possibilità di sfuggirle e che l’artista dovrebbe semmai attraversare restando indenne, come Mosè il Mar Rosso”.

E allora, rotta la rigidità delle classificazioni, e avviatici alla libertà creativa non meno che critica, in questo percorso espositivo dal Padiglione Centrale (Giardini) all’Arsenale inaugurato dalla presentazione del Libro Rosso del noto psicanalista Carl Gustav Jung, ci piacerebbe seguire l’idea di una passeggiata dello sguardo, con quale ellissi, come tra i capitoli di un film di Godard: per highlights, visto che tra tanti spot istituzionali è sempre bene che gli spot luminosi dell’attenzione siano ondivaghi, erranti: liberi di circolare senza vincolanti circolarità.

IL LORO CORPO VI SCALDERÀ – Sono stati attribuiti all’artista austriaca Maria Lassnig e all’artista italiana Marisa Merz i Leoni d’oro alla carriera. La Lassnig, uscendo dall’ombra di Freud e Schiele con una pittura ricca di scudisciate corpose e sfaccettature psicologiche, si è fatta apprezzare specie per i body-awareness paintings, dipinti di auto-coscienza corporea, la cui urgenza ci sembra ancora scottante, nell’epoca degli avatar e dell’allargamento/sfalsamento dei confini del corpo fisico, tra virtualità e maschera, al punto che, come scrive Alessandro Cappabianca nel bel libro Alla ricerca del corpo perduto, il valore, oggi, va forse ricercato nella contaminazione o ibridazione d’immagini reali e virtuali, quale espressa nella parola-valigia imagemotion, a indicare i procedimenti di film come Christmas Carol di Zemeckis, Tintin di Spielberg o, naturalmente, di Avatar”. Il movimento cercato e poi bloccato dalla Lassnig ci sembra, in questo senso, uno stop-motion pittorico, un dinamismo che recupera la carne attraverso la cornice conoscitiva della pittura, in una paralisi vitale.

Tesa all’ibridazione è l’opera di Marisa Merz, la cui ricerca non si ferma all’esplosione degli anni ’60 con l’Arte Povera, ma prosegue, con ispirata sensibilità, tra scultura, pittura, disegno e installazione, dando luogo a un corpus di immagini primordiali, ora più fantasmatiche, ora di tangibile fisicità.

IO NON SONO QUI – Il Leone d’oro per il miglior artista della mostra è andato a Tino Sehgal, londinese di origini indiane ma residente a Berlino. Un piccolo gruppo di persone è steso sul pavimento della galleria. Si possono muovere, mentre in sottofondo fluisce un canto ritmato. Il pubblico li guarda, mentre raramente i performer ricambiano, assorbiti da un passo di danza o da un lento movimento: i corpi sono come diventati automi, ma nell’assenza di relazione diretta, di relazione “sociale” come si è abituati a praticarla, il vuoto relazionale si riempie del sottile rapporto che, attraverso la meraviglia e lo sforzo di comprensione, ha sempre fatto dialogare l’opera d’arte con lo spettatore. È un’interazione senza interazione: un po’ come quella dell’artista stesso, che pare si dia alla macchia, in Laguna, da buona star, non avendo peraltro voluto didascalie sui muri né segnalazioni sulla mappa. C’è, ma (non) si vede.

ALIEN(I) – Menzione speciale per la scultura a Roberto Cuoghi, per l’opera Belinda, definita monicellianamente come “tentativo di pretesa di realizzare una rivelazione”, da parte di un autore che confessa candidamente di non saper disegnare, ma di disegnare; di non saper fare musica, ma di fare musica; di non saper scolpire, ma di fare sculture. Noi, che non sappiamo fare critica, ci confessiamo impreparati: ma è meglio così, visto che, a detta dell’artista, è proprio dall’impreparazione che nasce la rivelazione, al punto che “se Alien fosse comparso in un drive in movie degli anni ’50, quella sarebbe stata una rivelazione per il pubblico: sarebbe stato impreparato rispetto a navicelle spaziali che assomigliano ad aspirapolveri”. La scultura Belinda è una drive out scultura, che guida fuori dai territori del conosciuto, sabotando la struttura così come la conosciamo: è fuori centro, ha un andamento imprevedibile, sembra pesante ma si sposta con un dito. E a proposito di (aspira)polvere, è fatta di polvere dolomitica che si consolida con acqua marina e con l’aggiunta di cenere da pizzeria, colle e lacche di vario tipo. Del terzo tipo, forse, quello dell’imprevisto.

(…continua…)

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Scritto da Antonio Maiorino.