Mad Men entra nel 1968 con un doppio episodio, come la première della quinta stagione. Ma siamo agli antipodi della leggerezza (se mai si può parlare di leggerezza per Mad Men) di “A Little Kiss”. “The Doorway” è un lungo viaggio cupo e così ricco di significati che ogni commento, compreso questo, è destinato ad essere parziale.

“The Doorway” si presenta su più piani in continuità con atmosfere e temi della stagione precedente, nonostante la prima parte ci porti via, lontano da New York, al sole delle Hawaii. Insicurezza, paura del tempo che passa, paura della fine, morte. Sulla spiaggia l’orologio di Don si ferma, ma è più un congelamento plastificato che una pausa rilassante dalla routine cittadina. Megan, ormai abbastanza famosa da essere fermata per un autografo, si adatta perfettamente all’esotismo ricostruito dell’hotel superlusso, mentre Don fa quello che sa fare meglio: osserva in silenzio.

Doorway: il portone del palazzo davanti al quale il portiere Jonsey momentaneamente muore; la porta sempre aperta di St. Mark’s Place, lo squat cui fa visita Betty; quelle aperte e chiuse una dietro l’altra che per Roger rappresentano l’insoddisfacente svolgersi dell’esistenza; quella di accesso alla nuova alcova di Don, che si svela improvvisamente ma non inaspettatamente. E quella dell’Inferno, evocato nel modo più esplicito possibile – nonostante, probabilmente, non ci sia lettura meno da spiaggia di Dante – proprio all’inizio dell’episodio: incipit su incipit.

Un filo diretto collega i presagi oscuri della stagione 5 a quelli di questo episodio: dal cappio scarabocchiato in “Signal 30” alla cravatta-cappio abbandonata sulla spiaggia assieme ai vestiti della perturbante pubblicità per l’hotel Sheraton. I segnali di morte si moltiplicano intorno a Don Draper, di spalle di fronte alla finestra, come Lane prima di suicidarsi, e dannatamente simile a un corpo deposto quando dorme (e fortunatamente Megan lo sveglia); colpisce la sua curiosità morbosa per lo sguardo sull’aldilà, quella brutale soggettiva iniziale di cui noi siamo partecipi ma che a Don è negata. Dobbiamo preoccuparci? O Weiner ci sta solo manipolando?

Roger, dallo psicanalista, lamenta la fine delle esperienze, Don ne vive una ma non riesce a renderla a parole. Quando ci prova, l’immagine che emerge è quella di un’anima che lascia il proprio corpo, di un uomo che abbandona i propri abiti e sparisce tra le onde: il subconscio di Don non ha mai preso il sopravvento sull’intuito con tale violenza. L’unica esperienza rimasta è la morte? Ne è sicuro Roger, che in questo episodio perde la madre («this is my funeral!»), le illusioni di un rapporto padre-figlia basato sull’affetto disinteressato, e infine il lustrascarpe, unico evento capace di ridurlo in lacrime dietro le quali, ovviamente, si rivela molto altro.

Ogni volta che si trova di fronte alla manifestazione della morte, Don è totalmente spiazzato (l’infarto di Jonsey, il funerale della madre di Roger), tanto quanto di fronte al ricomparire improvviso del proprio passato. Il soldato Dinkins compare come un fantasma di Dick Whitman, che nel pubblicitario di successo vede un’apparizione benaugurante del futuro, ma anche una promessa di ansie pur sempre più sopportabili della paura di morire: «One day I’ll be the veteran in paradise. One day I’ll be the man who can’t sleep and talk to strangers». Ma quando Don cercherà di vendere le Hawaii come paradiso, appunto, gli uscirà fuori tutt’altro.

In cerca di esperienza sono anche Sandy, l’amica violinista di Sally, e Betty, che la insegue forse per proteggerla, forse per sfuggire alla noia: si addentra come mai prima nell’alterità di uno stile di vita che nasce come sovvertimento volontario del suo, ma non lo comprende, come non comprende l’inquietudine di Sandy, il suo desiderio di vivere una vita autenticamente sua. Chiusa, sua malgrado, nella propria rigidità, lasciate da parte (si spera) le fantasie oscene evocate per Henry, Betty può solo trasgredire con un nuovo colore di capelli. Questa di Betty è forse la parte meno soddisfacente dell’episodio, un po’ per la rappresentazione naif dei giovanissimi squatter, un po’ perché rimane totalmente a sé rispetto al resto.

A differenza di Betty, Don invece non cambia mai, né nell’aspetto (mentre si allungano capelli, barba e basette di tutti gli altri), né nelle abitudini: ce l’aveva già fatto intuire il finale di “The Phantom” che i liberatori giorni di passione con Megan stavano per finire. Stavolta Don si ritrova tra le braccia di un’altra donna (interpretata da Linda Cardellini) senza nemmeno bisogno di uscire dal condominio: ma, come già altre volte, è una distrazione deludente, che non basta più per abbandonarsi indifferente al fluttuare della propria identità. Sempre più frequenti i momenti di smascheramento improvviso che smarriscono Don: il fotografo che lo invita ad essere se stesso, ma anche la foto rubata del matrimonio che per un secondo mette in pausa una guerra; o l’accendino di qualcun altro di cui sembra impossibile disfarsi. Non solo squarci indesiderati verso quell’altra vita, ma anche segnali di una coazione a ripetere che Don credeva di aver superato. E invece no, ripetere «I want to stop doing this» non è sufficiente. L’unica che sembra riuscire a muoversi in avanti mettendo a frutto ciò che ha trovato dietro le porte aperte precedentemente, è Peggy, felice con Abe, capacissima nei momenti di crisi – ma noi lo sapevamo già – e serenamente risoluta, come un Don Draper molto più pacificato.

In tutto questo marasma di suggestioni, tra le altre cose, brillano i dialoghi tra Don e il dottor Rosen, la lezione di Don su amore e pubblicità, la telefonata di Peggy e Stan, il dottore sugli sci nella New York innevata, e, su tutti, le interpretazioni di Jon Hamm e John Slattery. L’unica critica che si può muovere a questo episodio è quella di essere veramente troppo, nonostante la concentrazioni su pochi personaggi: ma è di Mad Men che stiamo parlando, dovremmo esserci abituati.

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Scritto da Chiara Checcaglini.