Il mutismo a cui Giorgio Diritti costringe Jasmine Trinca nei primi dieci minuti de Un giorno devi andare, in selezione ufficiale al Sundance, è il silenzio del dolore che è sempre incomunicabile perché è esclusivo di chi soffre, mai condivisibile perché incrostato alle pareti intime di chi sta male. È la mancanza di dialogo fra le tre donne di una famiglia, è il mutismo a cui sono soggetti l’uomo e il tempo frenetico del dovere quando ci si trova in spazi sconfinati, quando la natura ci riporta alla condizione più basica e dunque più vera dell’essere umano. Eppure questo silenzio rimane implicito, distante, intrappolato nelle fredde montagne del Trentino, dove è ambientata parte della vicenda, e non giunge a toccare le corde intime dello spettatore che di fronte ai grandiosi paesaggi d’Amazzonia e alla genuinità della gente della favelas di Manaus prova una malinconia simile a quella di Gauguin di fronte agli abitanti di Tahiti, la nostalgia di ciò che si era in origine: un bambino curioso indivisibile dalla propria comunità. Ed è questo anelito verso un paradiso perduto, una società solidale e compatta, espresso del regista a salvare un film che ha dovuto sacrificare le proprie aspirazioni documentarie.

Eh sì, perché la storia di Augusta – che dopo aver perso un bambino, aver scoperto di non poterne più avere e il successivo crollo del suo matrimonio, segue suor Franca in Amazzonia per sfuggire al dolore o almeno trovargli un senso – non ci rapisce, non ci trascina nella carne viva della sua sofferenza. Una sofferenza che Augusta non è riuscita a comunicare nemmeno a sua madre Anna, ancora addolorata per la perdita del marito e troppo piena del proprio dolore per accogliere quello della figlia. Incomunicabilità che si ripete nel rapporto di Anna con la madre Antonia, nonna di Augusta, che visita di sfuggita solo per dovere, ma con la quale non riesce mai a parlare veramente.

La dicotomia caldo/freddo, calore umano/gelo del cuore, unione/lontananza, condivisione/distacco prende corpo attraverso l’alternanza fra l’esistenza, il viaggio interiore di Augusta in Amazzonia e la vita monotona e grigia della madre e della nonna in Trentino. Un’alternanza che non fa scorrere la scena precedente in quella successiva in maniera naturale, come le acque del Rio Negro nel Rio delle Amazzoni. Non si tratta di una fusione, ma di una cesoia che infastidisce, che stona, certamente non a causa del montaggio, ma di una sceneggiatura che non crea tensioni, che non ci fa entrare nel personaggio di Augusta, che ci tiene distanti. Distanti rispetto al dolore di Augusta, una Jasmine Trinca troppo musona e chiusa in se stessa, “una piccola donna complicata” come dice il suo stesso personaggio. Vicini, però, rispetto alla comunità di indios della foresta, alla natura selvaggia, alla semplicità di rapporti autentici basati sulla fratellanza e sul senso di appartenenza alla propria terra e al proprio gruppo.

Al contrario di quanto accadeva ne Il vento fa il suo giro, qui l’arrivo dello straniero non crea tensioni o squilibri: se lì la comunità veniva sconvolta dall’avvento dell’uomo di fuori che a sua volta subiva una metamorfosi, qui la favelas accoglie Augusta integrandola, ma non ne viene modificata. Il passaggio della donna non mette in discussione ciò che avviene quotidianamente fra le palafitte che continuano a cadere, dove i bambini continuano ad essere venduti e la partita di calcio del quartiere continua a svolgersi seguita dalla telecronaca de “La voce della palafitta” (un abitante seduto comodamente nella sua palafitta affacciata sul campo che commenta il gioco attraverso un megafono).

E sono questi elementi documentari, la realtà di queste immagini più di quelle ricercate e dal sapore pittorico del cielo che si rispecchia nel fiume, della spiaggia, dove una solitaria Jasmine Trinca pare essere sbarcata per partecipare a L’isola dei famosi, a emozionare e a coinvolgere. “Anche qui c’è la minaccia esterna verso la comunità”, ci tiene a sottolineare Diritti. È la minaccia del progresso che ha il volto degli imprenditori europei che vogliono costruire residence turistici e fare degli indios degli intrattenitori da cabaret che si esibiscono nelle loro danze. È la ricerca del benessere che ti fa vendere un bambino, è il governo che vuole distruggere le favelas, perché pericolose oltre che brutte, e sparpagliare la comunità dove “i bambini sono figli di tutti” e strapparla dalla terra degli affetti e dei padri.

Diritti ha voluto far recuperare allo spettatore occidentale questa dimensione primigenia e comunitaria attraverso la finzione. Ma questa si rivela superflua rispetto alla forza dell’immagine reale, all’impatto penetrante della vita, della realtà di cui il cinema si fa portatore sano e inevitabile.

Scritto da Vera Santillo.

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