Django Unchained è il nuovo film diretto da Quentin Tarantino, interpretato da un cast di grandi nomi fra cui Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio e Samuel L. Jackson.

Al suo primo western, il regista losangelino propone la sua interpretazione personale del pistolero Django – apparso per la prima volta nel 1966 nell’omonimo film di Sergio Corbucci – facendone uno schiavo nero liberato il quale, con l’aiuto di un cacciatore di taglie tedesco, parte per liberare la moglie dalle grinfie di un sadico proprietario terriero.

La linearità della vicenda, strutturata come la più classica storia di frontiera sui temi della vendetta e del riscatto personale, e ispirata al mito di Sigfrido e Brunilde (come spiega un bel dialogo fra Jamie Foxx e Christoph Waltz) funziona, in realtà, da pretesto per il cinefilo Tarantino per mettere in scena un omaggio in grande stile a uno dei generi cinematografici da lui più amati in gioventù: nel film abbondano, infatti, citazioni non solo dal prototipo del 1966, di cui riprende la sequenza iniziale dei titoli di testa, compresa la grafica, con il celebre tema musicale di Luis Bacalov in sottofondo, ma da numerose produzioni italiane come Lo chiamavano Trinità, Il grande silenzio, I giorni dell’ira, oltre agli inevitabili riferimenti alla filmografia di Sergio Leone. Si cita anche ampiamente la blaxploitation degli anni Settanta, nelle sue variazioni ambientate nel Sud schiavista, in particolare i cult Mandingo e Addio zio Tom, a cui si ispirano alcune sequenze nella seconda parte.

Ora, se è pur vero che Tarantino diventa sempre più citazionista, e che le idee alla base delle sue opere sono da ricercare nelle filmografie altrui, essendo il suo un cinema che si nutre di cinema, altrettanto innegabile risulta la capacità del regista di offrire un’interpretazione assolutamente personale dei modelli di riferimento, rinnovando l’interesse nei confronti di un cinema vintage che rischierebbe di cadere nell’oblio. Dal pistolero vendicatore, qui di pelle nera, taciturno e implacabile, al bounty killer dai modi raffinati, presentato con la variante dell’origine teutonica, dal latifondista sadico e annoiato al maggiordomo nero e servile che sembra uscito da Via col vento, ogni stereotipo dell’immaginario western e sudista passa sotto la lente deformante, barocca e pop, del cineasta; il quale, rinunciando alla scomposizione temporale delle opere precedenti in favore di una sceneggiatura meno complessa (dalla quale emergono, comunque, ottime caratterizzazioni e dialoghi spassosi), e concentrandosi di più sull’aspetto estetico e iconografico (con uno stile registico ispirato al cinema di genere italiano, Leone e Corbucci in testa, ma anche a Sam Peckinpah), mantiene acceso l’interesse dello spettatore per quasi tre ore di film.

Per essere più precisi, a una prima parte davvero eccezionale, incentrata sul legame allievo-mentore fra Django e il soave cacciatore di taglie tedesco impersonato dal sublime Christoph Waltz – che torna a recitare per il regista dopo l’indimenticabile ritratto dell’ufficiale nazista Hans Landa in Bastardi senza gloria – ne corrisponde una seconda, in gran parte ambientata nella piantagione di Candieland, a tratti fin troppo verbosa e teatrale, sebbene riscattata dal gran finale, che più catartico non si può. Con l’entrata in scena del sempre più bravo Leonardo DiCaprio, damerino narcisista ed esteta della violenza gratuita, oltre che inamovibile assertore della superiorità della razza bianca, e dell’altrettanto grande Samuel L. Jackson, che ruba la scena nel ruolo di uno Zio Tom tanto devoto al padrone quanto crudele con gli schiavi, vera anima nera della casa, il film si trasforma in una vetrina per una gara di istrionismi pregevole ma un po’ fine a se stessa, con qualche sequenza protratta per le lunghe (come il dialogo a tavola fra DiCaprio e Waltz). In quel contesto, Django assume il ruolo di spettatore silenzioso, anche per via dell’interpretazione alla Clint Eastwood di un Jamie Foxx sorprendentemente granitico, mentre la trepidante Kerry Washington si limita a impersonare la damigella in pericolo, una Brunilde nera in attesa che il suo Sigfrido la liberi dalla prigione di fuoco rappresentata nel film dalla mortifera piantagione.

Ciò non toglie che Django Unchained sia un’opera, nel suo insieme, straordinariamente divertente, soprattutto nella capacità di alternare sequenze comico-grottesche davvero azzeccate (su tutte, quella dell’attacco di improvvisati membri del Ku Klux Klan, guidati da un canuto Don Johnson che sembra il colonnello Sanders del Kentucky Fried Chicken, e quella dell’addestramento da pistolero di Django contro un bersaglio ridicolo) ad altre in cui la violenza sanguinaria, da sempre marchio di fabbrica del regista, assume dimensioni talmente iperboliche da sconfinare nello splatter. Uno splatter che non infastidisce perché è evidentemente finto, senza alcuna pretesa di realismo. Più disturbanti appaiono le brutali punizioni cui vengono sottoposti gli schiavi, aggravate da un uso continuo dell’insulto razziale nigger, che ha fatto storcere il naso ai fanatici del politically correct (in questo senso, però, la polemica accesa da Spike Lee in proposito appare quantomai fuori luogo).

Come al solito, la colonna sonora è estremamente curata nella sua varietà – a fianco di classici temi di film western (un po’ fuori luogo quello di Trinità), figurano pezzi folk di Jim Croce e Richie Havens, l’hip-hop di RZA e perfino una canzone originale composta per il film dal maestro Ennio Morricone e cantata da Elisa – così come lo straordinario casting, che affianca ai cinque protagonisti un numero sterminato di vecchie glorie del cinema di serie B adorate dal regista, come i minacciosi James Remar, Don Stroud, M.C. Gainey, Michael Parks e pure Franco Nero, il Django originale, che si presta, in una “amichevole partecipazione”, a un memorabile scambio di battute (e di testimone) con Foxx riguardo alla grafia del nome del personaggio. Lo stesso Tarantino, sempre più corpulento, si ritaglia un cameo nel ruolo di uno scagnozzo ghignante e non propriamente sveglio.

In sintesi, un’opera sconsigliata ai puristi del cinema come fucina di nuove idee e agli studiosi della schiavitù (di cui il regista non pretende comunque di riscrivere la storia), ma una vera festa per i fan del western all’italiana, della cultura pulp e di Tarantino, che aggiunge un altro felice capitolo alla sua filmografia.

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