James Bond compie 50 anni. Nel 1962 esce nelle sale cinematografiche il primo lungometraggio, Dr. No (Licenza di uccidere) di Terence Young, quest’anno è da poco uscito Skyfall di Sam Mendes, il ventitreesimo (senza far rientrare nel computo il primo mediometraggio del 1954 Casino Royale di William H. Brown Jr., al tempo rimasto inedito in Italia, l’omonima parodia del 1967, diretta a dieci mani, e l’“anomalo” remake Never Say Never AgainMai dire mai del 1983 di Irvin Kershner).

Impossibile scrivere in poche righe di tutti i film, dietro la macchina da presa dei quali sono passati numerosi registi: Terence Young, Guy Hamilton, Lewis Gilbert e John Glen dirigono quasi tutti i film dagli anni Sessanta agli Ottanta; mentre dagli anni Novanta diversi sono i nomi noti che si succedono alla regia, da Martin Campbell a Michael Apted, da Lee Tamahori a Marc Forster. Altrettanto impossibile trattare tutte le fonti letterarie: non solo Ian Fleming, che inventa il personaggio e scrive la maggior parte dei romanzi, ma numerosi autori si sono cimentati in sceneggiature, racconti, romanzi, fumetti e videogiochi, incentrati sul personaggio. Su tutti ricordiamo il noto Jeffery Deaver, che nel 2011 ha pubblicato il suo Carte Blanche.

Un cronistorico omaggio al personaggio, dunque, quello del grande schermo, perché è lui a festeggiare il mezzo secolo di vita su celluloide. L’agente segreto inglese, il cui “doppio zero” del numero identificativo 007 indica la sua “licenza di uccidere”, nasce con il volto di Barry Nelson, ma ufficialmente all’inizio è Sean Connery (attore poco noto, fino al 1962), che entra e permane nella memoria collettiva e segna la Storia del cinema, interpretando i primi cinque e il settimo film della serie e conferendo quei tratti salienti che continuano in parte a caratterizzare il personaggio anche dopo cinquant’anni: eleganza e freddezza, ironia e seduzione. Solo una serie di attriti con la casa di produzione Broccoli lo allontana dal ruolo all’inizio degli anni Settanta.

Solo nel sesto lungometraggio, On Her Majesty’s Secret Service (Al servizio segreto di Sua Maestà, 1969, l’unico della serie diretto da Peter Hunt), Bond prende le sembianze del modello George Lazenby, la cui discreta prova non convince né pubblico né produzione (d’altro lato, la critica ritiene invece il film di Hunt uno dei migliori della serie), e la cui carriera finisce con il non “decollare” mai. Dal 1973 al 1985, per ben sette lungometraggi, il nuovo volto del personaggio è Roger Moore, che rimane al momento l’attore con più interpretazioni e che per il periodo più lungo è associato alla figura di Bond. Ironico quanto Connery, non più tanto giovane, al momento dell’“investitura”, Moore riesce a conquistare il pubblico, ormai rassegnato all’addio di Connery. Per due soli lungometraggi, usciti nel triennio 1987-1989, Timothy Dalton, attore di “stampo teatrale”, non riesce a entrare nel ruolo affidatogli, si stanca in fretta della scarsa accoglienza e abbandona la scena, consegnando però alla Storia License to Kill (Vendetta privata, 1989, John Glen), uno dei migliori film della serie.

Gli anni Novanta sono tutti di Pierce Brosnan (che, quasi un decennio prima, si è già visto soffiare il ruolo da Dalton): il Muro di Berlino è caduto, l’URSS è smembrata, la Guerra Fredda finita. Ha ancora senso un personaggio come Bond? Forse più di prima, perché le rivalità tra potenze non sono finite e non finiranno mai, e si fanno ora ancor più “velate”, subdole, spietate. L’agente segreto potrebbe essere ormai considerato, rubando le parole a M, «a sexist misogynist dinosaur, a relic of the Cold War», che affoga nei suoi cocktail i ricordi delle grida di tutte le persone uccise in nome dell’MI6. Ma con GoldenEye (1995), dopo una pausa di sei anni (al momento, la più longeva), i Broccoli, Brosnan e il regista Martin Campbell dimostrano il contrario: Bond è vivo, e, nonostante i tempi siano cambiati, ancora affascinante, ironico e attuale, come il pubblico lo vuole. Certo solo dopo un aggiornamento: per esempio, la figura di M, dopo le interpretazioni di Bernard Lee e Robert Brown, viene legata a Judi Dench, una donna, dunque, che riesce a conferire al personaggio tutte le caratteristiche che più gli appartengono: autorità e autorevolezza, serietà, senso di responsabilità e, ovviamente, una certa dose di ironia.

Purtroppo, pur mantenendo il fascino di Brosnan, i successivi tre film (1997-2002) sono mediocri. Tant’è che la Produzione opta per un vero e proprio reboot della serie: nuovamente diretto da Campbell e tratto (dopo anni di controversie sui diritti) dal primo romanzo di Fleming, esce Casino Royale (2006), con il biondiccio (decisiva rottura nei confronti dello stereotipo del Bond moro) Daniel Craig: ci si trova di fronte a un personaggio fortemente realistico, non invincibile, ben più cupo e tenebroso rispetto al passato, quasi per nulla ironico («Do I look like I give a damn?», risponde a un barista che gli chiede se il suo vodka martini dev’essere «shaken or stirred», “agitato o mescolato”, stroncando così il “mito” che da decenni accompagna Bond ai banconi dei bar). Craig è 007 anche nei due più recenti capitoli successivi; e continua a riscuotere successo sia di critica sia di pubblico, dimostrando che James Bond compie 50 anni, ma – come si suol dire – non li dimostra: rimane uno splendido cinquantenne e continua a compiere il suo dovere.

Scritto da Luca Pasquale.

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