La nave dolce è imprescindibile tappa nel percorso di Daniele Vicari di recupero della memoria, di ricerca, tra le pieghe della Storia, dei materiali e delle testimonianze di un passato che è bussola per il presente.

Il viaggio della nave Vlora nell’agosto del 1991 lungo quel sottile lembo di Adriatico che divide l’Albania dalla Puglia, le mani alzate in segno di vittoria, gli scontri al porto, l’incapacità delle istituzioni di affrontare l’emergenza, la solidarietà di molti diventeranno elementi ricorrenti del viaggio di speranza di tanti uomini che, dopo quei 20.000, attraverseranno le acque del Mediterraneo in cerca di un nuovomondo.

Il documentario, vincitore del Premio Pasinetti alla 69. Mostra del Cinema di Venezia, si costruisce come racconto collettivo, stralci di esperienze che si sovrappongono come quei frammenti di corpi e sguardi mostrati nelle prime immagini. La scelta del regista di lasciar parlare i protagonisti senza esplicitarne nome o titolo in didascalia mette ogni racconto, ogni esperienza sul medesimo piano, quelle di volti noti come Kledi Kadiu, l’Ispettore della Polizia di Frontiera Nicola Montano, il sindaco di Bari Enrico Dalfino, così come quelle dei tanti passeggeri della Vlora sfuggiti al rimpatrio.

Il lavoro di selezione dei documenti, provenienti, tra gli altri, dall’Archivio di Stato albanese e dall’emittente pugliese Telenorba, è impressionante per varietà e intelligenza del montaggio, mai giustapposizione dettata da soli criteri cronologici o narrativi ma sempre ricerca di senso e verità, attraverso accostamenti e sequenze mai scontate. Si va così dalle immagini di un’Albania simile all’Italia degli anni ’50 per sviluppo e costumi ma determinata ad opporsi al regime – simbolicamente rappresentato dall’odiosa statua di Enver Hoxha, rovesciata in piazza Skanderbeg a Tirana nel febbraio del ’91-, sino alle immagini di un Sud Italia decadente, di gente generosa in un panorama urbano che si sgretola, tra vecchie ambulanze e uno stadio-prigione ridotto a poco più di un rudere.

La nave Vlora – dolce perché carica di zucchero proveniente da Cuba – è il miraggio che attira tanti, tantissimi a Durazzo, pronti a lanciarsi dalle gru del porto o ad arrampicarsi lungo i cavi di ormeggio pur di assicurarsi un posto a bordo. Venti ore di viaggio senza acqua, cibo, posto sufficiente per sdraiarsi e riposare, eppure, all’arrivo al porto di Bari, tanta forza per gridare con gioia, lanciarsi in mare aperto e nuotare fino a riva. Quella banchina che doveva essere porta di accesso all’Italia delle opportunità resta per molti l’unico scorcio visto prima del rimpatrio, oltre alla pareti invalicabili dello Stadio della Vittoria di Bari, dove per diversi giorni migliaia di uomini vengono stipati senza servizi igienici e sufficienti scorte alimentari. Le dita alzate in segno di vittoria lentamente si abbassano e lasciano il posto a teste reclinate sullo sfondo di scritte sbiadite: “Viva Italia”.

Ma Vicari non scrive un’agiografia e dalla storia non vengono cancellati i racconti di chi si è finto malato o moribondo pur di essere portato altrove, anche a discapito di altri più bisognosi di aiuto; il racconto della dittatura ricreata all’interno dello stadio da gruppi violenti e armati, destinatari unici delle risorse distribuite e degli scontri al porto, dei poliziotti feriti, vittime anch’essi di una gestione scellerata da parte del governo centrale. Gela il sangue il confronto tra l’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga e il sindaco di Bari, scontro tra due opposte visioni di apertura e integrazione che si ripeterà negli anni a venire per ogni sbarco, fino all’infamia dei respingimenti in mare.

La scena finale, con il meticoloso riordino dello stadio – erba tagliata e linee ben ripassate in mezzo ad una struttura che crolla – è di una pregnanza simbolica che non necessita di spiegazioni. Ed è quello che è necessario ricordare, accompagnati dai volti del regista Robert Budina, della traduttrice Eva Karafili, del ballerino Kledi Kadiu e degli altri uomini e donne protagonisti di questo importante capitolo di storia mediterranea.

Scritto da Barbara Nazzari.

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