In Padroni di Casa, presentato al Festival di Locarno, il regista Edoardo Gabbriellini costruisce un complesso gioco di abbinamenti inediti, a cominciare dal curioso accostamento del protagonista Gianni Morandi all’ottimo duo Elio Germano e Valerio Mastandrea. L’opposizione dentro/fuori costituisce il fil rouge della trama e viene declinata in svariate forme oggettive e soggettive, con spunti interessanti, ma anche il rischio di prevedibilità e cali di tensione narrativa. Ad avviare la pericolosa commistione di interno ed esterno è proprio Morandi, che interpreta l’alter ego di se stesso. Il cantante Fausto Mieli, che ha abbandonato la scena da dieci anni per assistere la moglie Moira (Valeria Bruni Tedeschi), colpita da ictus e soggetta ad attacchi epilettici, assolda un team di bioedilizia per rifare i pavimenti delle terrazze (ma non degli interni), aprendo così una breccia nel grande hortus conclusus che è il paesino natio sull’Appennino tosco-emiliano (che potrebbe benissimo essere la Monghidoro del Morandi reale).

Con l’arrivo dei fratelli piastrellisti Elia e Cosimo (Germano e Mastandrea) comincia quindi a delinearsi una lunga serie di dicotomie. La più lampante è naturalmente la contrapposizione tra i locali e gli outsider, orchestrata in modo abbastanza canonico, ma in grado di restituire un ritratto piuttosto verosimile della vita da paesino di bassa montagna, con la giusta dose di s e z alla bolognese, il bar come fulcro dell’aggregazione sociale (nel bene e nel male), le adolescenti che si atteggiano a grossolane Gradische e sognano di fuggire altrove, una mezza gang di ragazzetti sfaccendati che si credono padroni del luogo e i rispettivi genitori che invece lo sono di fatto, con le fasce onorifiche in bella mostra e la doppietta carica nell’armadio.

Elia e Cosimo si scontrano subito con questo piccolo mondo autarchico, calpestandone il terreno minato, pur senza avere cattive intenzioni. Cosimo toglie i freni alla propria esuberanza capitolina, mentre Elia attira le simpatie della disinibita Adriana, aspirante femme fatale concupita dal figlio del sindaco, Davide, che con il suo sguardo torvo e i suoi accessi di gelosia esprime il carattere possessivo e rancoroso della collettività paesana. La faida si estende poi alla generazione adulta, sfruttando il motivo ricorrente dell’illecita caccia al lupo, che permette inoltre di introdurre il tema del rapporto tra uomo e natura. Un legame apparentemente idilliaco, con un Mieli appassionato di jogging nei boschi (come lo stesso Morandi) e testimonial della riserva naturale che circonda il paese. Ma dietro la splendida facciata del grande prato verde dove nascono speranze e l’insistenza sul “bio” si cela un lato oscuro personale e collettivo che conferisce marcate venature drammatiche e di suspense alla base iniziale di commedia.

I generi tuttavia non riescono ad amalgamarsi perfettamente, dal momento che ciascuno segue binari piuttosto stereotipati e che la sceneggiatura non sostiene adeguatamente la struttura narrativa. La scena di apertura evoca subito il filone del microcosmo di paese “violato” dagli estranei, facendo intuire la virata verso Il Vento Fa il Suo Giro (Giorgio Diritti, 2005), di cui però non si raggiungono la fattura e la profondità. Allo stesso modo l’arrivo dei due fratelli a casa Mieli, con la moglie in sedia a rotelle e la badante slava, lascia presagire un senso di tragedia imminente, acuito dalle successive scene dominate da una Valeria Bruni Tedeschi, perfetta Signora Solitudine prigioniera della propria disabilità, che risente però di una costruzione imperfetta del suo personaggio, di cui non si riesce a vivere appieno il dramma. Il bipolarismo tra il tentativo di mostrarsi marito modello e gli scatti di frustrazione verso la nemica amatissima fa infine capire che prima o poi anche il buon vecchio Fausto si stancherà di inghiottire rospi (eufemisticamente parlando).

La performance di Morandi è comunque discreta: dopo un inizio piuttosto impostato, il cantante si scioglie e si cala nella parte (che per altro gli è stata cucita addosso), svelando le profonde contraddizioni della sua indole e dando il meglio di sé nella scena che prelude al concerto della sua rentrée, alle porte del paese, che farà cambiare idea a chi lo vede ancora come il ragazzino senza tempo che amava i Beatles e i Rolling Stones. Il concerto offre inoltre una mini-esibizione canora, che però sarebbe risultata molto più naturale se si fosse deciso di attingere al ricco repertorio del cantante, invece di utilizzare i testi scritti da Cesare Cremonini, costruiti talmente ad hoc da risultare artificiali.

Perfetta, invece, la recitazione di Mastandrea e Germano, che esprimono la loro vis Romana ciascuno a proprio modo: Cosimo è caciarone, sbruffoncello e creativo, mentre Elia è più riservato e concreto, ma non disdegna ugualmente le forme di distrazione che gli si offrono su un piatto d’argento. Non brillano invece gli altri interpreti, neppure la bella esordiente Francesca Rabbi, troppo poco naturale al fianco di Germano. La contrapposizione tra la buona performance degli attori in cartellone e quella meno riuscita del resto del cast si unisce alla sceneggiatura altalenante nell’evidenziare l’incompiutezza del percorso verso la maturità artistica intrapreso da Gabbriellini, del quale però va apprezzata la bravura nel costruire il rapporto fra i due fratelli e soprattutto nel trasmettere un costante senso di minaccia incombente, pur non riuscendo a chiudere il cerchio senza sbavature. Una prova da sei, magari anche sei e mezzo, ma certo si può dare di più.

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Davide V.
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