Reality, dalla commedia all’italiana a l’inquilino del terzo piano. Così Matteo Garrone definisce l’excursus, lo sviluppo drammaturgico e psicologico del protagonista del suo ultimo film, premiato a Cannes con il Grand Prix della Giuria, dove la favola diventa follia ed il sogno di andare in tv si tramuta in ossessione.

Ispirato a un fatto realmente accaduto, Reality è la storia di Luciano, pescivendolo napoletano dalle spiccate doti istrioniche, dotato di quella famosa arte di arrangiarsi tutta napoletana che gli ha fatto intraprendere un giro di truffe rivendendo al doppio del prezzo una serie di robottini da cucina. Tutti in famiglia gli dicono che si merita la televisione o comunque un pubblico più vasto di quello dei parenti riuniti al matrimonio col quale si apre il film. Ecco allora che prima l’incontro con Enzo, ex gieffino accolto come una star in discoteche e locali della zona, e poi le audizioni del Grande Fratello, spingono Luciano a cogliere al volo quella che potrebbe essere la sua occasione di riscatto verso un futuro di ricchezza e popolarità e che si tramuta in un grande sogno/incubo ad occhi aperti che cambierà la propria vita e quella dei propri cari.

Sin dalla scena di apertura del film comprendiamo che il terreno sul quale ci muoveremo è quello dell’incantesimo, del sogno favoloso, delle aspirazioni condotte all’eccesso. Un eccesso che non diventa mai grottesco. Eccesso, esasperazione che sono possibili solo in un territorio come quello napoletano, dove ogni manifestazione umana è un fatto teatrale (si pensi al modo di parlare e di esprimersi della gente, alla città stessa per la sua innata scenograficità) e radicalmente barocco. Dunque, Napoli come lo scenario perfetto per una storia sull’apparenza, sulla rappresentazione di se stessi davanti ad un pubblico. Perché ciò a cui aspira Luciano è un palcoscenico, un piedistallo, una pedana dalla quale guardare la platea degli astanti, degli adoratori. Lui, abituato a dirigere dall’alto il traffico di clienti che affollano la sua pescheria, lui che è punto di riferimento, quasi un ufficio di collocamento per la gente che vuole arrotondare entrando nel giro dei suoi affari.  Come si fa a sprecare un talento come il suo? La sua famiglia, il ragazzo del bar, i commercianti suoi vicini inneggiano a Luciano. Le parole della gente hanno l’effetto di una formula magica sulla mente idealista e sognatrice del pescivendolo che si lancia nella rincorsa al successo. “Never give up“. E’ questo il leitmotiv che lo conduce sempre più lontano dalla realtà e che gli fa credere di essere spiato da inviati segreti della televisione che vogliono vederlo nella sua vita vera e giudicare così la sua idoneità per entrare nella Casa. Queste spie restano sempre sfocate, indefinite, fantasmi immateriali prodotti dalla mente del protagonista. Davanti alla tv l’intera famiglia di Luciano assiste alla prima puntata del Grande Fratello e Garrone sceglie di tenerli fuori fuoco: Luciano è ormai troppo distante dalla realtà che lo richiama verso le proprie responsabilità di padre e di marito.

Moderno San Francesco (quasi un’icona pop), Luciano travisa le parole del cugino Michele, un eccellente Nando Paone, che lo invita a rimediare al proprio atto di egoismo quando ha rifiutato una moneta a un povero, e si libera dei propri beni per regalarli a un gruppo di mendicanti. Il suo atto è un gesto teatrale, una finzione. Non è l’occhio di Dio quello che teme, ma quello della televisione che lo spia e lo giudica. La religione, o meglio l’immaginario religioso, è un altro elemento interessante del film. Poiché ogni rito è una rappresentazione che prevede delle regole e delle icone a cui ispirarsi, Luciano appare affiscinato persino dalla messa e dal suo leader e oratore, il prete. Che siano le immagini sacre o le icone popolari come Enzo, sono questi i modelli di successo e di rivalsa che nutrono la mente del protagonista.  Ad alimentare le sue aspirazioni allucinate, è la fotografia, spesso notturna di Marco Onorato perché la notte, le luci soffuse e calde dei lampioni diventano materia e metafora del sogno.

E qui giungiamo alla questione del rapporto fra realtà e sogno, fra verità e finzione. Oggi per esistere sembra necessario apparire, essere l’oggetto di uno sguardo e allo stesso tempo essere il soggetto che guarda (icona e pubblico nello stesso tempo). Una questione già affrontata in “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, altro film interpretato da attori detenuti, dove la finzione dell’omicidio perpretato da veri assassini diventa realtà più vera e l’arte perfettamente compiuta. “Ogni volta che rientravo in cella mi mettevo in discussione … perché quella sulla scena è la vita vera”, dice Aniello Arena, attore detenuto della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo e grande protagonista del sogno diventato pericolosamente troppo reale di Reality.

Scritto da Vera Santillo.

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