La primavera è arrivata, le temperature aumentano, il sole si attarda sempre di più nel cielo azzurognolo (o pantone 292c, per i più pignoli), e noi amanti del cinema, o anche semplici estimatori con un paio d’ore libere, cosa possiamo fare, che film possiamo gustarci nella confortevole frescura pomeridiana di questo soleggiato aprile che molce il cuore ad ogni istante? Ovviamente tutte quelle opere che, viste in una qualsiasi altra condizione che non sia a) di serenità e atmosfera perfetta, e b) di tepore e luminosità ambientale ed esistenziale, stroncherebbero psicologicamente e moralmente qualsiasi essere umano.
Spalancate quindi le finestre, godetevi il cinguettio degli uccelli e la mitezza rassicurante dei raggi solari, versatevi un bicchiere di quello buono, mandate e ricevete dagli amici qualche messaggio scherzoso, fate una carezza al vostro cane (o gatto, o altro essere che condivide con voi le gioie del risveglio primaverile), e premete, infine, play. Dopo, niente sarà più come prima.

Salò o le 120 giornate di Sodoma – Pier Paolo Pasolini, 1975
Nella Salò repubblichina del 1945, quattro “Signori“ (ognuno rappresentante di un determinato potere – religioso, politico, economico e giudiziario) sequestrano un gruppo di giovani e si rinchiudono in una villa per dare sfogo a tutti i loro più deviati capricci.

Spenta ogni illusione marxista, azzerata ogni speranza culturale e politica in qualsiasi classe sociale, Pasolini imprime nella sua ultima opera un senso di catastrofica disperazione senza alcuna possibilità di salvezza o recupero. Il repertorio è, alla lettera, quello sadiano: accoppiamenti e violenze sessuali di qualsiasi tipo, livello e direzione; torture d’ogni grado e intensità; squartamenti e uccisioni in abbondanza. Il tutto sempre a favore di camera, spiattellato e scandagliato in ogni sua piega organica. Un film che continua a fare un male cane non solo per quanto vi si vede, ma per la rappresentazione che vi viene fatta del potere – un potere arbitrario e anarchico che si abbatte e viene ritorto su chiunque, trasformando ciò che tocca (corpi, relazioni, idee e necessità) in una caricatura disgustosa e grottesca.

Srpski film (A Serbian film) – Srđan Spasojević, 2010
Miloš, ex-pornostar ritirato a vita privata, è un buon marito e padre di famiglia, con un unico cruccio: i soldi che stanno per finire. Decide allora di accettare la proposta, non molto chiara, di una collega che gli consiglia di girare un ultimo, grandioso film porno.

Quello che a prima vista potrebbe sembrare un ben girato e fotografato horror-slash-porno, si rivela, mano a mano che la pellicola procede, un tour de force nel degrado psicologico e sociale della società dello spettacolo (e, per traslazione, della società serba e occidentale). In un crescendo d’angoscia calcolatissimo e squisitamente cinematografico (l’uso dei flashback, del film dentro al film e delle soggettive è da manuale), e con un triplo finale che fa letteralmente ammutolire, A Serbian film dimostra come sia ancora possibile disturbare delle sensibilità (le nostre di occidentali postmoderni) che si suppone siano oramai fruste, sature e rotte a qualsiasi tipo di esperienza visiva.

Begotten – Edmund Elias Merhige, 1991
Il film inizia con Dio che si sbudella e si taglia la gola, seguito dall’incarnazione di varie figure mitologiche che continuano a cadere (o a essere fatte) a pezzi, con tripudio di pestaggi e cordoni ombelicali ovunque.

I motivi per cui Begotten non è affatto facile da vedere sono molti e vari: da una parte c’è il trattamento tecnico al quale Merhige ha sottoposto il film, ovvero una serie di ri-fotografie, fotogramma per fotogramma, della pellicola in bianco e nero originale,  che, come risultato, ha portato a un turbinio di rumore visivo continuamente riconfigurato in immagini più o meno distinguibili (la dissonanza e la fatica cognitiva generate dalla visione non sono indifferenti); dall’altra, c’è la continua presenza di temi e scene contenenti morte, dismembramenti, distruzione, violenze e ingiustizia, che rendono Begotten un artefatto visivo sconcertante.

Idi i smotri (Come and see) – Elem Klimov, 1985
La vita del giovane Florya, della sua famiglia, e dei bielorussi in generale, non è affatto facile. Soprattutto se è il 1943 e i nazisti ti stanno massacrando e mettendo a ferro e fuoco tutta la nazione.

Opera di grandissima fattura formale e stilistica, è stata spesso accusata di essere, in realtà, un semplice e rozzo film di propaganda. A prescindere da considerazioni di questo tipo (anche se è comunque vero che nel film tutti i russi sono buoni e tutti i tedeschi sono dei nazistoni schifosi), ciò che colpisce di Come and see è la rappresentazione a volte brutale, a volte metaforica (e in questi casi ancor più angosciosa e dolorosa), dell’innocenza distrutta dalla guerra.

Hotaru no haka (Una tomba per le lucciole) – Isao Takahata, 1988
La vita del giovane Seita, della sua famiglia, e dei giapponesi in generale, non è affatto facile. Soprattutto se è il 1945 e gli americani ti stanno bombardando anche i peli sulle chiappe.

Prodotto e presentato assieme a Tonari no Totoro (Takahata è infatti il cofondatore, assieme a Miyazaki, dello Studio Ghibli), Una tomba per le lucciole si situa agli antipodi della delicatissima favola miyazakiana. La pellicola infatti propone, tramite le disperate condizioni in cui versava la popolazione giapponese durante l’ultimo anno di guerra, uno sfacelo prima di tutto famigliare, che si riverbera poi nel decadimento e nelle ipocrisie sociali, per disintegrare, infine, materialmente e spiritualmente, anche l’individuo. Un film di una tristezza sconfinata.

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Scritto da Gualtiero Bertoldi.