1966. Kristen viene ricoverata nel reparto speciale  di un ospedale psichiatrico, in evidente stato confusionale, dopo aver appiccato il fuoco ad una fattoria. Non ricorda nulla dell’avvenuto, né i motivi del suo gesto, sa solo di volersene andare. Tanto più che tra le celle, oltre alle altre quattro ragazze in cura, si aggira una presenza non troppo amichevole. L’unica soluzione è la fuga. Ma si può uscire vivi dal reparto?

John Carpenter, il genio del new horror, il figlio virulento dei grandi classici americani, uno degli autori più intelligenti e complessi degli ultimi decenni. Una filmografia quasi impeccabile che intreccia tematiche affascinanti e inquietanti, dal confine tra realtà e finzione, alla natura del Male, passando per la critica socio-politica. Ma soprattutto maestro della paura. Se Carpenter indica un punto qualsiasi nello spazio (vd. foto sopra) è certo che da lì non uscirà nulla di buono, sia esso il malvagio demone Lo Pan,  Alice Cooper o un tenero (?) lupacchiotto. Ma un decennio di attesa, intervallato dall’interessante Master of horror “Cigarette burns” e dal meno interessante “Il seme del male”, pesa in aspettativa e in timore. Timore post “Fantasmi da Marte”, imbarazzante nonostante le apprezzabili sequenze horror (c’è da dire che buona parte dell’imbarazzo ci sarebbe risparmiato se scomparisse dalla scena il corpo grassoccio di Ice Cube). Aspettativa perché, in ogni caso, un film di Carpenter non può mai deludere del tutto. O no?

Non sarà The Ward a risolvere la questione. Non perché disprezzabile, al contrario, è l’ennesima dimostrazione del talento registico del nostro John, del suo rigore narrativo, della sua impostazione solidamente classica. Ma che dire dello spessore metaforico, così peculiare e determinante nella sua opera? Tolto questo non resta che un meccanismo ben funzionante.

Un’immotivata patina vintage (a meno che si creda che l’ETC sia una pratica ormai in disuso) e l’ambientazione in un ospedale psichiatrico provocano le prime perplessità. Riuscirà il nostro John a sviluppare una trama interessante e originale da uno spunto così abusato negli ultimi anni? O c’è il rischio che ripercorra uno dei tanti snodi narrativi già visti in altri film? In effetti no, John non ripercorre uno dei tanti snodi narrativi già visti in altri film, li ripercorre TUTTI, il che è già un apprezzabile tentativo di composizione patchwork.
Abbiamo (criptati):

  • Il fantasma incazzato, senza folkloristiche catene e pudico lenzuolo a coprire le carni putrefacenti, che torna a seguito di comportamento non proprio equo nei suoi confronti in vita. Anche il coniglietto può testimoniare.
  • Il trauma rimosso, ovvero gli Stati Uniti non saranno un paese per vecchi ma anche i giovanissimi non se la passano troppo bene, soprattutto se incappano in qualche cowboy annoiato
  • Il sonno della ragione che genera mostri ma anche graziose signorine in gonnella. C’è l’aggressiva, la sensuale, l’artista, l’infantile, l’intraprendente e poi c’è Tammy che è una gran stronza.

Il meccanismo di scatole cinesi funziona alla perfezione, senza grandi sorprese.  Ma di che ci vuole parlare John? I bei titoli di testa sembrerebbero suggerire un leitmotiv basato sul parallelo tortura medievale/ psichiatria tradizionale, parallelo che in effetti ritorna altre volte nel corso del film ma senza alcuna rilevanza emotiva e concettuale. La critica sociale e politica non trova posto, il che può far piacere a chi trova la critica sociale e politica volgare o superflua e l’arte mondo a sé stante, solitamente i difensori manifesti o occulti dello status quo. Né trova posto una riflessione sulla psiche che vada al di là dei cliché e del sensazionalismo delle schizofrenie pirotecniche. Certo, ci sono film horror interessanti e godibilissimi che non hanno nulla da comunicare oltre allo svolgimento del plot. Ma da John Carpenter no, ci aspettiamo di più.

Ma alla fine, nonostante tutto, che voto dare a The Ward?  Con affettuosa fiducia e speranza,  tre bussole d’oro sono un giusto compromesso. Continua a spaventarci John!

Scritto da Barbara Nazzari.

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Davide V.
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